«…Non è molto bella, ma è molto buona…» scriveva Giovanni Boldini nel marzo del 1927 parlando per la prima volta di lei al fratello Gaetano. Una bellezza, quella di Milli, come in seguito l’avrebbe affettuosamente soprannominata, dunque fortemente dipendente dalla sua complessa connotazione psicologica di donna concreta, comunque legata ai principi morali dell’ambiente contadino nel quale era cresciuta, eppure spontaneamente sensuale, di animo gentile e fermo ad un tempo, inguaribilmente estroversa e nondimeno conservatrice, avvenente e trasudante di materna umanità e quindi talmente molteplice da non poter essere rappresentata con un aggettivo e nemmeno colta dall’immagine riflessa di una fotografia.
Di corporatura rotonda, la faccia larga e serena incorniciata dalla levigata capigliatura bruna, da cui a quel tempo faceva scendere sul naso dritto un grazioso ricciolo, vestita elegantemente, con un copricapo a zuccotto che esaltava la naturale simpatia espressa dai tratti del volto, alla fine di settembre del 1926, Milli, inviata per un’intervista dal suo giornale, si presentò con un certo timore reverenziale a boulevard Berthier presso lo studio di Giovanni Boldini, l’artista italiano famoso in tutto il mondo, consumando quello che si sarebbe poi rivelato l’incontro più importante della sua vita.
Il giorno prima della visita a Boldini, secondo quanto rivelato da Emilia, si era svolto fra loro un singolare dialogo: «…avevo chiamato al suo numero della rete telefonica di Wagram “Parlo con Boldini?” “Si sono io.” “Vorrei intervistarla.” “Io non ne ho bisogno.” “Ma io si, sono a Parigi per questo; vivo facendo interviste che mando a un giornale italiano.” “Da quando in qua le donne italiane si sono messe a lavorare?” “Dal dopoguerra” “Quanti anni ha lei Madame?” “Non lo so. E lei?” “Forse i miei lei li sa. Lavora per vivere? Per vivere a Parigi?” “Pressappoco” “Allora venga domani alle undici”…».
Quella mattina «…Mi ero svegliata presto, avevo preso il mètro, da buona pie- montese mi ero fitta il capo di arrivar puntuale; invece mi smarrii, feci fatica a trovare il boluvard Berthier, quel numero 41, e quando misi l’indice sul bottone del campanello elettrico, mi accorsi di essere in ritardo, trafelata e spettinata; quasi pentita di aver tanto insistito per essere ricevuta.
…Percorsi con lo sguardo la prospettiva del boulevard; notai che, sebbene fossimo al principio di settembre, gli alberi lasciavano già cadere le foglie. L’estate del 1926 era stata freddissima: Parigi era intirizzita e grigia. Suonai una seconda volta sicura di veder apparire sulla soglia della porta di legno ornata da un ramo in ferro battuto un servitore in ghingheri e livrea. Ebbi un colpo: venne ad aprire un piccolo vecchio dal torace ampio, dalle gambe torte, vestito di marrone, che portava in capo una bombetta; gli occhi che mi squadravano dall’alto in basso squadravano dall’alto in basso erano cerulei; ma lievemente appannati. “Entrez Madame”, mi disse facendomi entrare e toccandosi un momento la bombetta con una mezza riverenza. Io confusissima ma delusa; sebbene sapessi che aveva compiuto ottantaquattro anni, la sua voce giovanile al telefono mi aveva ingannata.
Emilia Cardona Boldini in una foto del 1930 dedicata allo scultore Francis La Monaca, archivio privato
C’era già una leggenda Boldini, quasi un mito Boldini; io vedevo l’uomo. Egli mi invitò a salire una scala di legno che dava nell’anticamera, sul pianerottolo, dopo pochi gradini, troneggiava un busto in bronzo che aveva fatto Gemito. Il ritratto, modellato rapidamente, gagliardamente, lo rappresentava vigoroso spavaldo trionfante, con un pizzetto aguzzo e due baffetti dongiovanneschi e uno sguardo scrutatore. Ora di fronte alla mia giovinezza (avevo ventiquattro anni), alla mia improntitudine, mostrava anch’egli un certo imbarazzo. L’imbarazzo di essere stato sorpreso, “sorpreso vecchio”. Mi precedeva, ed entrammo nel vastissimo studio. Era molto grande, illuminato dall’alto, disordinatissimo come un officina in pieno lavoro; tele ovunque, tavolette ovunque, cavalletti da non contare, abbozzi accumulati e accatastati contro le pareti, contro i mobili. […] Così quando si piantò davanti al grande quadro che aveva interrotto per venirmi ad aprire, studiando di sbieco l’effetto che esso mi faceva, mi sentii intimidita. Ogni senso di curiosità e di ironia scomparve per lasciar libero adito all’ammirazione. […] Mi invitò a fargli una nuova visita quando l’articolo fosse uscito. Ma non aspettò tanto: la sera stessa, rientrando al mio modesto alberghetto di Montmartre, trovai un suo pneu che mi invitava a colazione per l’indomani e che diceva: [non posso più fare a meno di voi]…»
Dopo la morte di Alaide Banti, residente in Toscana con la quale l’artista coltivava ormai un rapporto unicamente epistolare ma definita da lui stesso sua fidanzata per sessant’anni 60, vincendo le preoccupazioni del fratello per la notevole differenza di età fra lui e Emilia, classe 1899, e per il profilo poco raccomandabile tracciato di lei dalle indagini, certamente interessate e non prive di pregiudizio, commis- sionate a un detective dallo stesso Gaetano e nei rapporti presentati al podestà di Ferrara dal professor Leone Carovita, Boldini e la Cardona, che nel frattempo aveva ottenuto il divorzio dal primo marito, si unirono in matrimonio a Parigi il 19 ottobre 1929.
A causa delle cagionevoli condizioni di salute dello sposo, alle nove e trenta il cavalier della Legion d’onore Louis Bergeotte si recava nella abitazione di boulevard Berthier per unire in matrimonio Giovanni Filippo Giusto Maria Boldini, cavaliere ufficiale della Legion d’onore, e la giornalista Emilia Cardona. Attenendosi ai sensi di legge, per dare valenza pubblica alla cerimonia, le porte di casa furono tenute aperte e il rito nuziale fu celebrato alla presenza di questi testimoni: Contessa d’Orsay, duchessa Grazioli, conte Luciano Zuccoli e consorte, m.me Stern e Gabriella Cardona, sorella della sposa. «…Cara Eva, ieri, 19, ho sposato Giovanni Boldini. Sono molto contenta e penso che questa notizia ti farà molto piacere. Forse lo saprai già da Anita la quale è al corrente di tutto perché è a lei che debbo il mio annullamento di matrimonio e questo. Quando mi incoraggiavi e mi raccontavi, pensavi ad una soluzione così; Boldini sta bene ed è felicissimo…» Il contenuto di questa lettera apre ovviamente a alcune ipotesi sulle effettive intenzioni della coppia, ma soprattutto della sposa, che non precisa se il sostantivo soluzione sia da legare all’annullamento del suo primo matrimonio o alluda invece alla nuova unione, in termini in qualche modo riduttivi rispetto alla dichiarata felicità dello sposo.
«…il suo discorso nuziale [scrive Emilia] fu un misto di melanconia e di ironia e di superiore filosofia. Stando a sedere a tavola e cincischiando un mazzolino di violette: “ Amici miei – disse – non credetemi rammollito; non è colpa mia se sono nato tanto presto e lei tanto tardi. Sono vecchio ma è una cosa che mi è capitata addosso all’improvviso”…».
«…io ero entrata, così, quasi per scherzo, nell’intimità, nel segreto di un mago. Mi andava parlando con quella sua voce giovanile, in un francese pittoresco anche se non perfetto; mi chiamava Madame…».
Tiziano Panconi, Boldini Mon Amour, Pacini Editore, Pisa, 2008