Alberto Savinio, Roger et Angélique, 1931, olio su tela, 90 x 73 cm
È prerogativa del genio sottrarsi alla competizione del vivere quotidiano. Questo il destino di alcuni fondamentali scienziati del ‘900, come Marconi o Einstein. Le loro menti brillantissime, affollate di balenanti allucinazioni e poi di vertiginose, lancinanti, profondissime ponderazioni, sempre al limite dell’impossibilità del riscontro oggettivo e scientifico, vagavano per strade immaginifiche, impraticabili e inesplorate, accarezzando il miraggio di gettare un ponte fra realtà e utopia. Così anche Andrea de Chirico, in arte Alberto Savinio, coltivò le sue più profonde inclinazioni artistiche di sensibilissimo compositore musicale e spumeggiante scrittore e, nel pieno della sua parabola espressiva e umana, di geniale pittore surrealista.
La realtà ispirò e stimolò Savinio che, attuando un processo di traslitterazione intellettuale di tipo metafisico, vi attinse, prendendo per sé tipi estetici idealizzati, scartati da una società in pieno declino morale e smarrimento ideologico che, negli anni Venti, piangeva ancora i morti e gli orrori della guerra, né aveva dimenticato i miti di successo e libertà della Belle Epoque, né l’aria dolciastra e irrespirabile delle fitte cortine di fumo che attraversavano gli scintillanti e artificiosi caffè concerto della Parigi di fine e inizio secolo.
Savinio, il cui primo latte erano stati i canti epici della mitologia greca, si considerava prima di tutto un narratore e così, apparentemente senza affrontare un vero e proprio noviziato, a ventisette anni iniziò a dipingere tutto ciò che aveva già in mente. La sua prosa onirica, velata di malinconia, era avvolta da sentimentalismi e nostalgie di epoche remote. Fu altare di gloria eterna che fu del divino Achille e degli eroi della Guerra di Troia e del Piave, affondando le radici nei moniti moralistici del patriottismo risorgimentale, riaffermati nel “ventennio” dalla propaganda fascista.
Armò le bestie, come galli, lupi, licantropi, cervi, mostri marini e centauri, di una corporeità umana e di una spiritualità altera e divina e, per questo, soprannaturale. Questi animali, a metà fra uomini e dei, divennero i prototipi estetici del suo racconto leggendario, traboccante di intrepidi eroi che, con i piedi ben piantati fra prospettive surreali eppure intimissime di oscillanti mura domestiche, volgevano i torsi forti e i loro sguardi fieri, talvolta smarriti, al di fuori delle finestre metafisiche, poste in mezzo ai confini fra due universi concomitanti e inconciliabili che guardandosi evocavano l’ignoto.
I piani inclinati e mobili di quelle pareti affacciate sul mare fosco parevano pronti a cedere improvvisamente, in un baleno, al primo soffio di maestrale, a seppellire sotto un cumulo di macerie quel mondo inquieto e sensibile, eccitato da una immaginazione fantastica e struggente…”.