Estetismo, decadentismo e fortunysmo fra pittura e letteratura attraverso un carteggio inedito di Gabriele d’Annunzio
di Tiziano Panconi
Intorno al 1871, anno in cui Boldini si trasferì a Parigi da Firenze, dove aveva fatto parte del gruppo dei Macchiaioli, la città era frequentata una moltitudine di artisti, per lo più riuniti in specifici quartieri, trasformati in cités d’artistes.
Sulla rive droite della Senna, nella zona tra la collina di Montmartre e Place Pigalle – dove il peintre italien visse, al numero 11, fino al 1886 – si trovavano vere e proprie “case d’artista”. Qui, non di rado, i pittori condividevano gli spazi di lavoro per poi incontrarsi a dipingere all’aria aperta e, più tardi, ritrovarsi ai caffè come La Nouvelle Athènes, al numero 9 della stessa piazza, dove l’amico degli anni fiorentini, Marcellin Desboutin, aveva trasferito il quartier generale degli impressionisti, allontanandoli dal fin troppo affollato Café Guerbois.
Sullo stile di vita bohémien e sul clima decadente delle piccole strade che correvano sconnesse fra gli slarghi e le vigne della vecchia provincia agricola, la sera si apriva lo scandaloso sipario del demi-monde, inondato dall’alcol e gremito di prostitute i cui clienti abituali erano gli stessi mariti ed “irreprensibili” capifamiglia della borghesia francese che le disprezzavano di giorno.
Se per i parnassiani la bellezza costituiva un valore assoluto e trasmissibile, le novelle filosofie decadentiste imputavano al progresso e alla produttività la responsabilità di ostacolare la felicità, percepita quale necessità spirituale insopprimibile dell’umanità, producendo laceranti frustrazioni proprio in un’epoca in cui la borghesia stava assistendo alla caduta dei dogmi tradizionali e di quei valori ritenuti fino ad allora universali. Questo clima di decadenza morale fu spesso abbracciato dagli artisti ma anche denunciato quale controverso contraltare e vera cartina di tornasole di un protocollo sociale sovraccarico di pretese virtù etiche, a tutti gli effetti effimere e vacillanti, oramai destituite dalla storia e dall’ondata di progresso generata sia dalle conquiste della scienza e della tecnologia sia dall’avvento delle moderne filosofie liberali.
Del resto, l’inedito riversarsi in città di centinaia di pittori, ognuno tormentato dalla permanente ossessiva necessità di individuare scorci, figure e soggetti originali, dette luogo a una sorta di “studio di massa” senza precedenti – al limite della psicoanalisi – dei luoghi, degli ambienti e delle attitudini di quell’umanità così eterogenea.
Lo stesso Boldini, dapprima, coniò un’originale sintassi di vibrante e raffinata resa naturalistica, rettificata da continui virgolettati, per poi avvertire tutti i limiti di quella cifra così esasperatamente puntuale ed educata che per sua stessa natura rigettava i concetti drammatici, risultando inadeguata a scandagliare gli abissi dell’anima. Dunque “il mestiere”, benché magistrale, e perfino la trascrizione iperrealista del soggetto non supportavano più, completamente, quella sensibilità psicologica dell’opera alla quale si poteva pervenire soltanto attraverso particolari e inedite soluzioni stilistiche in forte dissonanza con i canoni di grazia e armonia borghesi, sebbene questi fossero condivisi e generosamente remunerati, per esempio, dalla ricca clientela della Maison Goupil, principale committente del maestro italiano dal 1871 al 1878.
Intorno al 1879 – quando la prosa dannunziana si legava attraverso la pubblicazione di Primo Vere alla metrica barbara di Carducci – per Boldini fu tempo di una svolta radicale e il registro narrativo, certamente anche grazie alle sperimentazioni condotte nella garçonnière di rue Pierre Demours durante gli incontri con l’intrigante contessa de Rasty, fu improvvisamente attraversato dalla rappresentazione emozionale dell’amante, colta in pose esplicite e sinuose, nuda o fra le lenzuola, liberando una prorompente carica erotica e sensuale che costituì anche in seguito la traccia, e sovente la sottotraccia, della ritrattistica muliebre da cavalletto. Trasportato dalle vertigini della passione, l’artista si era cioè trovato quasi occasionalmente a spingere con foga, per la prima volta senza censure, su un pedale narrativo sfrenato, a lui sconosciuto, mediato soltanto dall’eleganza del filtro stilistico, quasi come se i propositi creativi e culturali posti in opera a termine degli appuntamenti clandestini potessero riscattare o restituire dignità a quella relazione fosca, fondata sul tradimento della compagna e del marito.
Il contesto socio-culturale nel quale era calata la descrizione eccitata e voyeuristica dei muliebri umori non era diverso da quello messo più tardi in prosa dallo stesso d’Annunzio, quando Andrea Sperelli, protagonista de Il piacere, preparava con maniacale attenzione l’alcova vivendo lo spasmo dell’attesa di Elena, quali atti di pretesa redenzione estetica e morale: “aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d’Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d’argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto. L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz’ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov’era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell’appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L’ansia dell’aspettazione lo pungeva così acutamente ch’egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale”
“Boldini” scrive Sgarbi “fu il primo pittore italiano a tornare europeo, a poter sostenere, ben più di Hayez rispetto a Delacroix o di Fattori rispetto a Courbet, il confronto alla pari con gli artisti della sua generazione”. Si era cioè rinnovato quel primato avanguardistico della pittura sulla letteratura che dalla metà degli anni Sessanta aveva visto Signorini ispirare l’analisi verista di Capuana, che ne mutuò gli assunti concettuali nel loro evolversi innovativo, riconoscendo per primo che “io devo a lui […] come divenni novelliere”.
Nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento arte e letteratura intrapresero quella che più tardi Croce definì “la grande conversazione”, partecipando alla quale gli autori avevano circoscritto i propri perimetri d’indagine agli orizzonti domestici della provincia con i suoi costumi regionali e le sue peculiarità locali che, in reciproco dialogo, definivano il quadro culturale ed estetico dell’Italia post-unitaria.
La Toscana – in cui d’Annunzio ambientò nel 1902 La pioggia nel pineto e dove trascorse parte della propria vita, prima a Prato nell’adolescenza, conoscendovi il primo amore Giselda Zucconi, e poi a Settignano, nella sfarzosa villa La Capponcina a fine e inizio secolo – fu epicentro di sodalizi artistici e crocevia di pittori, scultori e letterati.
Fra questi, solo per portare alcuni esempi funzionali al nostro discorso, lo scrittore Carlo Placci, in rapporti con Boldini, nonché, come d’Annunzio, legatissimo all’amico dei Macchiaioli Enrico Nencioni e tutti e tre collaboratori della rivista romana “Cronaca Bizantina” – edita dal 1881 al 1886 – sulle cui pagine il giovane poeta mise a fuoco le proprie strategie culturali e narrative, plasmando i primi miti, intrisi di ricercata eleganza decadentista.
Il letterato e politico fiorentino Ferdinando Martini, che aveva favorevolmente recensito Primo vere, fu tra le personalità di riferimento del periodo
Una rappresentazione emotiva e dettagliata, serratissima, stilisticamente speculare, come vedremo, mutatis mutandis, alle sovrabbondanti e spagnoleggianti morfologie pittoriche michettiane. D’Annunzio adottava le strutture sintattiche del “verbo dipinto” dell’amico e conterraneo abruzzese, arricchendo i periodi continuamente interrotti e complicati da incisi e aggettivazioni ripetitive, proprio come l’estenuante reiterarsi, ritmico e musicale, di quei leggeri “tocchi” di finitura imbevuti di mezze tinte, stesi sugli incarnati per romperne la monotonia cromatica, rendendoli vivi e palpitanti.
Non diversamente dal Boldini e dal Michetti del decennio precedente, d’Annunzio faceva sfoggio di uno stile – tanto artificioso e carico di preziosismi da sopraffare il soggetto della narrazione – sciorinato attraverso il susseguirsi di licenze poetiche e arrotondamenti musicali, come parole tronche o allungate con le doppie vocali finali e il sistematico ricorrere ad antitesi fonetiche.
Se questa concettuale adesione al fortunysmo di Michetti, per quanto mediata, postuma e letterariamente traslata, non è stata fin qui evidenziata dalla critica, fu lo stesso poeta invece a chiarire, in apertura al romanzo, il suo massiccio debito metodologico nei confronti del pittore abruzzese: “a te che sei tanto acuto conoscitor di anime quanto artefice di pittura io debbo l’esercizio e lo sviluppo della più nobile fra le facoltà dell’intelletto: debbo cioè l’abitudine dell’osservazione e debbo, in ispecie, il metodo”.
La cifra boldiniana, fino ad allora abituata alle minuziose puntualizzazioni dei minuscoli pennellini e impareggiabilmente sciorinata nelle finitissime tavolette alla fiamminga che avevano incantato il pubblico di mezzo mondo nel lustro precedente, nel volgere di qualche mese subì una sostanziale trasformazione.
Insomma, ciò che per quasi tutti gli anni Settanta era stato ritenuto scomposto ed esteticamente sconveniente, fu recuperato e assunto quale fruttuoso terreno di ricerca. Si assistette così al moltiplicar- si delle prospettive inverosimili, delle figure fuori centro tagliate alla Degas, instabili o riprese come a loro insaputa, estranee a ogni atteggiamento posato.
Se sul versante letterario fu più tardi, nel 1889, che Mastro don Gesualdo, e con lui il Verismo di Verga, morirono, idealmente, fra le braccia del giovane aristocratico abruzzese Andrea Sperelli, su quello pittorico, Boldini, con circa un decennio di anticipo, aveva aperto la strada all’estetismo e al fascino decadente delle sue donne cerulee, seppellendo, per lo meno sul proscenio internazionale, il realismo dei Macchiaioli, evolutosi man mano in quel naturalismo che aveva a quell’altezza esaurito il suo impulso riformatore romano, così come riconobbe quale esempio di artista aristocratico il ritrattista concittadino Michele Gordigiani, la cui figlia era una della più intime amiche della compagna Eleonora Duse e con la quale Gabriele intrattenne rapporti e corrispondenze epistolari, trasfigurando nel romanzo Il Fuoco la malattia di Michele e lo sconforto della ragazza: “vide l’orribile minaccia sospesa sul genio di quell’artefice ch’era parso fecondo e infaticabile come un maestro antico, come un Della Robbia o un Verrocchio”.
D’Annunzio riconosceva all’insigne pittore fiorentino un ruolo di primo piano nella cultura figurativa ottocentesca, così come, a suo modo, aveva fatto molti anni prima, nel 1864, appena giunto a Firenze da Ferrara, il giovanissimo Zanin, presentandosi a lui con una lettera di raccomandazione del padre pittore Antonio: “Egli ha celebrato l’eterno femminino, per quella sua precipua sapienza tecnica in cui primeggiava, maestro nell’esprimere il brillio di un gioiello, il broccato di una veste, il trinato candore di un merletto, il roseo imperlato di uno scollo di dama altera, l’incarnato velluto d’un volto di una bella donna”.
Gabriele era profondamente affascinato da Giulietta Gordigiani, tanto da corteggiarla e trasfigurarla, sempre nel Fuoco, nel personaggio di Donatella Arvale.
Sulla scorta delle esperienze maturate durante il primo soggiorno romano del poeta, Il piacere fu scritto a Francavilla al Mare tra il 1888 e il 1889, in una sorta di lungo ritiro contemplativo, ospite nell’ex convento e dimora del fraterno amico Francesco Paolo Michetti, “il Conventino”. Circostanza che, prima ancora del successivo incontro con Gordigiani, ci appare l’ennesimo punto di contatto tra la biografia di d’Annunzio e quella di Boldini, espressione inoltre della precisa volontà dello scrittore di avvalersi delle arti figurative quali fonti di libera ispirazione poetica ed estetica, per affrancarsi così dal rischio d’esser tacciato di plagio, come ac- cadde all’indomani della pubblicazione di quello che fu definito dalla critica il “poema moderno”. Una sorta di esaltazione e, al contempo, di condanna dell’ambiente nobiliare capitolino che costitutiva tuttavia, in quel momento, un fertile terreno per l’emancipazione sociale del poeta intento nel descrivere i propri moti interiori, tutto sommato inconsistenti per l’economia del racconto.
Se la coeva letteratura francese di Huysmans gli aveva offerto spunti stilistici, metaforici e narrativi rispetto ai quali sarebbe risultato più prudente mantenere una certa distanza, la pittura, pur correndo su un binario espressivo apparentemente parallelo, ben accentuava invece quel senso di profonda eleganza spirituale che specialmente nell’opera di Michetti, fra il 1875 e il 1880, fu portata ai limiti della prefigurazione di un simbolismo estetizzante e talvolta onirico, tanto da spingere il poeta a scrivere: “il Corpus Domini [1877] era per tutti noi, cercatori irrequieti di un’arte nuova, il Verbo dipinto”. E ancora nel 1883, recensendo La raccolta delle zucche (cat. 153) dipinta dall’amico dieci anni prima, scriveva: “Il paesaggio è di Bolognano, un fondo di paesaggio roccioso, erto, a strisce bianche, grigiastre e rossigne di ruggine, che fa pensare a una rui- na immane di pagoda, a frammenti di colossi buddistici. Un vapore latteo fluttua nell’aria mattinale, sale dalli acquitrini verdognoli; e le piante dalle larghe foglie ruvide serpeggiano, s’intrecciano sul terreno, si levano in gruppi per l’alto. Per quella freschezza vaporosa vengono uomini e donne con enormi ‘cocozze’ in capo, ‘cocozze’ gialle, verdi chiazzate, di strane forme, di strani contorcimenti, simili a teschi mostruosi, a vasi guasti da gonfiori, a trombe barbariche, a tronchi di grossi rettili disseccati. È un effetto fantastico, quasi di sogno; ma la scena è reale”.
Al pari della maniera boldiniana del cosiddetto “periodo Goupil” (1871-1878), lo stile di Michetti era permeato dello “spagnolismo” alla Fortuny, che tanta eco conobbe non soltanto in patria ma anche fra Roma, Napoli e Parigi, carico di espedienti pittorici e suggestionanti effetti cromatici.
Il poeta subì il fascino abbagliante di quegli orditi grafici traboccanti di luccichii, vedendovi definitivamente imboccata la strada di quel progresso tanto atteso e la provvidenziale opposizione al concetto di separazione fra l’opera e l’autore, chiamato da Capuana a scomparire ed eclissarsi nel testo, tacendo le sue opinioni, affinché gli eventi si producessero in perfetta autonomia, trascritti quale fedele specchio moralistico della realtà.
Così, commentando l’Esposizione di Napoli del 1877, Adriano Cecioni ammoniva un certo tipo di pittura considerata di facile presa, poiché riteneva “sbagliato quando il tono è alterato per renderlo più bellino e seducente, come fanno tutti i seguaci di Fortuny principiando da Michetti, Dalbono e compagnia bella; i quali non hanno studiato mai la natura, ma gli artifizi del loro Caposcuola”.
Michetti, al contrario, sul versante iconografico era rimasto imbrigliato proprio nella religiosa adesione a quella poetica naturalista, di cui Cecioni fu tra i principali teorici, tipicamente italiana e in particolare centro-meridionale e vernacolare, mentre sul piano stilistico era in effetti caduto mani e piedi nelle mirabolanti spire del fortunysmo che, pur con le sue ridondanze, negli anni Settanta costituì tuttavia una provvidenziale opportunità di internazionalizzazione del vocabolario espressivo non soltanto michettiano. Una certa vena folkloristica caratterizzava del resto, a prescindere, quella stagione della pittura del Mezzogiorno d’Italia e così Michetti, nel Corpus Domini, spiegava senza incertezze le sue eloquenti iperboli cromatiche, traslate, anche nei timbri retorici, nel successivo gergo dannunziano. Boldini, dal canto suo, aveva invece in parte disattivato il prototipo fortunyano, mutuandone le accezioni peculiari, specialmente quelle ornative, trascrivendole però in un contesto lessicologico estremamente complesso e va- rio. Se ne svincolò più facilmente nei ritratti e questo fu possibile soprattutto grazie alla sua strabiliante padronanza tecnica, capace di ridurre nell’ombra perfino il geniale caposcuola catalano, con il quale, nei primissimi anni Settanta, si avvicendò quale pittore capofila della Maison Goupil.
Gli echi del fortunysmo non risuonarono tuttavia a lungo nel modellato dell’artista e sullo scorcio de- gli anni Settanta quegli schemi descrittivi, fin lì di grande successo, furono completamente scompaginati dal definitivo crescendo della sua sensibilità
I luccicanti saloni dei fastosi palazzi patrizi entro i quali avevano conversato deliziosamente damine e marchesini svanirono per sempre dall’immaginario pittorico boldiniano, e con essi il gusto Impero e le certezze sociali nelle quali si era riconosciuta fino ad allora l’alta borghesia francese.
Se Boldini avvertì la portata progressista dell’Impressionismo – le cui radici affondavano nel concetto di “impressione” coniato dai Macchiaioli sul finire degli anni Cinquanta e ratificato da Cecioni negli antesignani scritti del periodo: “L’opera d’arte non è altro che lo sviluppo di un’impressione ricevuta” – pur tuttavia non ne condivise in toto, come del resto era accaduto anche per la sintesi macchiaiola, la completa rarefazione dell’ordito pittorico. Questo, non soltanto perché l’artista era già impegnato nelle originali sperimentazioni sulla mimica e sulla dinamicità dei corpi posti in rapporto attivo con l’ambiente circostante, ma anche perché il definirsi, via via, di questo nuovo glossario verteva proprio sulla possibilità di intervenire soltanto ed espressamente a parziale modifica e alleggerimento dell’impianto descrittivo naturalista e delle sue salde strutture luministiche e prospettiche.
Dunque quella svolta così radicale – in un certo senso antinaturalista e, in nuce, a vocazione espressionista – non poteva risultare funzionale al suo singolare approccio con la realtà, filtrata attraverso una lente quanto meno bifocale, capace persino,
come nelle vedute veneziane, di ribaltare il cono ottico, sfocando i primi piani e mettendo inaspettatamente a fuoco particolari situati in lontananza. Insomma, se l’osservazione del vero permaneva quale impianto strutturale, a partire da quei fondi violacei degli interni plumbei e inquieti come cieli autunnali, si spiegavano invece concerti di pennellate ritmiche e liberissime. Mentre le tonalità, accordate sulle scale dei grigi, evocavano riflessioni sentimentalistiche, riverberando tutta la malinconia manifestata dagli sguardi struggenti e penetranti.
Certamente seducente, modernissimo e permeato di invitanti liquefazioni pittoriche, l’impressionismo di Monet tracciava una rotta irreversibile verso rese atmosferiche e figurazioni impalpabili di cui anche Boldini tenne conto.
La familiarità con Michetti non dovette costituire il miglior viatico per la realizzazione di un rap- porto di amicizia fra d’Annunzio e Boldini, visto che quest’ultimo non apprezzò che il principale premio della giuria alla prima Biennale di Venezia del 1895 fosse stato conferito al pittore abruzzese per La figlia di Jorio, mentre quello del Governo a Segantini e a lui soltanto il riconoscimento dei Comuni della Provincia.
Il poeta lasciò in Boldini – sostanzialmente indifferente alla letteratura – l’impressione di un uomo e scrittore eccentrico, estremamente accentratore nell’accezione più plateale del termine e per questo ingombrante, tanto che, in una lettera al fratello Gaetano scritta molti anni più tardi, lo definì: “esagerato alla d’Annunzio”
Il tema della decadenza dei valori, affrontato con Il piacere nell’ottavo decennio del secolo, era stato ed era ancora centrale nelle riflessioni estetiche e negli aggiornamenti concettuali e tematici di Boldini, che già intorno al 1879 aveva dipinto una serie di opere fondamentali, fra le quali per esempio Giovane coppia su un divano nello studio di un pittore, oltre a rappresentare i locali affollati delle Folies Bergère, realizzati in una commistione di mobilità pittorica ed eccitazione materica estenuanti. Nel 1886 la crisi sociale era stata presa a soggetto dalla rivista “Le Décadent”, da Paul Verlaine e dai cosiddetti poeti maledetti: “Sono l’Impero alla fine della decadenza, che guarda passare i grandi Barbari bianchi componendo acrostici in- dolenti in uno stile d’oro dove danza il languore del sole”.
Nel quadro delle dinamiche sociali che legarono Boldini a d’Annunzio, emigrato in Francia fra il 1910 e il 1915 per sfuggire ai creditori, un posto speciale spetta certamente alla figura di Mary Dorothea Labouchère, detta Dora, emblematicamente ritratta dal maestro in una serie di dipinti nel 1910.
La ragazza era figlia di Henry Du Pré Labouchère, politico e giornalista inglese trasferitosi definitivamente a Firenze nel 1906, dove morì nel 1912 la- sciandole un enorme patrimonio.
Nel 1903, a soli diciannove anni, la futura ereditiera convolò a nozze con Carlo Emanuele, marchese di Rudinì, il cui padre, Antonio Starrabba, latifondista e per due volte primo ministro del Regno, era stato a sua volta ritratto da Boldini nel 1898.
Carlo volle quale testimone di nozze l’amico Gabriele, il quale in quell’occasione conobbe, o forse rivide, la sorella Alessandra, giovane vedova del marchese di Riparbella, Marcello Carlotti, morto tre anni prima, dal quale aveva avuto due figli.
Approfittando dell’assenza, in quei mesi, della Duse impegnata in una tournée europea, Gabriele corteggiò e presto sedusse l’avvenente aristocratica, cui in precedenza non erano mancati illustri pretendenti, come il gran duca Sergio della famiglia imperiale russa, e che fin da ragazzina aveva mostrato un temperamento esuberante, essendo stata anche espulsa dal collegio del Sacro Cuore di Trinità dei Monti a Roma proprio a causa della sua indole inquieta.
Così, nel marzo del 1904, giunta a termine la convivenza con la Duse, Alessandra, ribattezzata dal poeta Nike per la sua bellezza statuaria, nonostante l’assoluta contrarietà del fratello e del padre, decise di trasferirsi con il poeta a Settignano, alla villa La Capponcina.
L’anno successivo, ammalatasi di un tumore all’utero, subì un complesso intervento chirurgico e, ricoverata nella clinica fiorentina Villa Natalia, fu premurosamente assistita dal compagno ma ignorata dal padre e dal fratello, ancora furibondi con d’Annunzio. Sebbene la ragazza si fosse ristabilita, il poeta, come di consueto, perse progressivamente interesse nei suoi confronti e la relazione si spense fra 1906 e il 1907, quando l’ex amante si trasferì a Roma, prendendo poi i voti.
Fu più tardi, intorno al 1913, che il rapporto fra il poeta e la famiglia Rudinì avrebbe assunto contorni più opachi, oggi in parte ricostruibili grazie al ritrovamento di tre lettere inedite indirizzate da d’Annunzio a Dora, dalle quali si evince la loro relazione segreta, finora sconosciuta alle cronache storiche ma di cui avevamo in passato dichiarato il sospetto, originato da taluni episodi conflittuali fra lei e la Casati, cioè l’amante per così dire “nota”, che non avrebbero trovato altrimenti giustificazione. Nel primo foglio in particolare, “l’amorevole” d’Annunzio scrisse a Dora di aver chiesto sue notizie alla marchesa Casati alla quale, evidentemente, non passarono inosservate queste attenzioni apparentemente innocenti. Pubblichiamo dunque qui, per la prima volta, queste pagine, gelosamente custodite in segreto per oltre un secolo, quali anello di affrontato nel nostro saggio pubblicato nel catalogo della grande mostra boldiniana del 2017 al Vittoriano di Roma.
Lettera 1, Fogli 1-2 [tradotti dal francese]
Ex libris in alto a sinistra: “Per Non Dormire”
Cara Dora,
Anche io vorrei tanto vedervi.
L’altra sera ho domandato di voi alla Marchesa Casati.
Verrò a pranzare con voi domani, venerdì 13 [disegno con gesti di scongiuro] Ma a che ora?
Il vostro molto devoto amico
Gabriele d’Annunzio
P.s.
Hotel Maurice,
Questo giovedì
Lettera 2, Fogli 3-4
Ex libris in alto a sinistra: “Per Non Dormire”
Cara terribile Dora,
Ho preso freddo ieri tornando in automobile e stamani ho un vile raffreddore che mi impedirà di avvicinarmi stasera a una creatura divina come voi siete.
Sono qui pieno di tristezza e umiliazione. Mi sentirei un poco consolato se potessi sperare di avere una di queste prossime sere, la gioia e il supplizio di accompagnarvi. Quando?
Com’eravate strana e dolce ieri! Una magnolia con un cuore nero.
Il vostro Gabriele
P. S. Rue Bassano III Questo giovedì?
Lettera 3, Fogli 5-6
Cara Dora,
Chiedo perdono umilmente di non aver risposto l’altra volta.
Sono impegnato per sabato, ma mi libero per avere la gioia di rivedere i vostri occhi.
A sabato sera, dunque, Grazie.
Il vostro per sempre Gabriele.
Alla luce di questa scoperta e sebbene l’ex libris in alto a sinistra di alcune di queste lettere, certe scritte in francese, rimandi al soggiorno d’oltralpe del Vate intorno al 1913, vi è da domandarsi quando ebbe effettivamente inizio la loro intesa e se possa essere addirittura ricondotta al decennio precedente. Un’ulteriore testimonianza del rapporto fra Gabriele e i Labouchère è fornita da un telegramma in entrata, conservato nell’Archivio Generale del Vittoriale degli Italiani, datato 16 marzo 1904, sulla cui busta è genericamente annotato Labouchere (madame): “Quando lei ritorna a Firenze voglio vederla e parlare per la figlia di Giorgio [sic!] Alexander di Londra vuole comperarla. Prego rispondere. Madame Labouchere, Villa Cristina”. Recando l’indirizzo fiorentino non è dato tuttavia sapere se la missiva sia stata trasmessa da Dora o dalla madre Henrietta Hodson.
La contiguità con la famiglia Rudinì si consolidò ufficialmente, come abbiamo detto, prima con la partecipazione del poeta al matrimonio di Dora in qualità di testimone e poi con l’inizio della sua relazione con la cognata Alessandra.
In queste epistole si coglie forse il senso più profondo del decadentismo morale dannunziano, di cui Il piacere oggi potrebbe forse apparirci la sublimazione letteraria, in una combinazione fra vis inventiva e una realtà che va oltre ogni borghese immaginazione, nella quale vi è, evidentemente, una completa identificazione fra narratore e protagonista. Probabilmente la stessa di quando, nel 1910, vestendo nel romanzo di mortali passioni Forse che sì forse che no i panni dell’aviatore Paolo Tarsis, attribuì una vicenda incestuosa alla famiglia patrizia degli Inghirami di Volterra.
Una cifra narrativa che ne Il piacere esplora gli abissi della coscienza, annichilita dai fremiti potenti e primitivi della passione che scandiscono e riempiono i tempi psicologici dell’ozio, prevalendo sempre e comunque sui dubbi intellettualistici e sui moniti etici indotti dal pensiero occidentale.
Se il mito del superuomo ricorre nella letteratura e nella vita sregolata e inimitabile del poeta, è lo stesso Boldini a delineare in alcune lettere il pro- filo psicologico altrettanto irrequieto e estroverso di Dora, definendola “Perfida Divina! appellativo che ricorre nel linguaggio di entrambi gli artisti – e lamentandosi perché “impossibile […] acchiapparla, tenerla! Sfugge, ritorna, risfugge”. Nonostante le innumerevoli amicizie in comune lascino immaginare un rapporto punteggiato di contatti più o meno occasionali ma comunque frequenti, nonché vissuto nella piena consapevolezza dei rispettivi ruoli di eccezionali protagonisti della cultura del tempo, gli incontri documentati fra il pittore e il poeta risultano invece piuttosto esigui.
Uno fra i primi e più importanti, che invero sembrerebbe presupporre una familiarità precedente, avvenne nel settembre del 1908, quando Boldini raggiunse d’Annunzio a Venezia per incontrare la marchesa Casati “a colazione all’Hotel Danieli. Era vestita di nero da capo a piedi, adornata con una delle sue ormai usuali e lunghe collane di perle. Mentre si avvicinava al tavolo, notò che il suo amante non era solo. Accanto a lui c’era un uomo sulla sessantina e oltre, tanto basso quanto grassoccio, con due baffi grigi spessi e un paio di occhiali a stringinaso agganciati in cima al naso bulboso. Proprio in quel momento, la collana di Luisa si ruppe, e le perle rimbalzarono sul pavimento del ristorante. L’estraneo si gettò carponi a offrirle aiuto”.
Oltre ai reciproci saluti, ripetutamente affidati, negli anni a venire, a comuni amici, il loro rapporto si sostanziò, in effetti, in due presunte raccomandazioni del poeta in favore dell’artista, che il 23 maggio 1911 chiedeva la sua intercessione per poter realizzare il ritratto dell’attrice e ballerina russa Ida L’vovna Rubinštejn con il costume da guerriero indossato nell’esibizione parigina de Il martirio di san Sebastiano, composto per lei da d’Annunzio. La condivisione di punti di vista espressivi sensibili estremamente sofisticati, a tratti capaci di manifestarsi quali francesismi in Italia e italianismi in Francia, sovente disallineati e fuori dal coro, li accomunò nella denuncia della crisi morale dei ceti sociali più alti che, alle soglie del Novecento, avrebbero dovuto affrontare la sfida della radicale e imprevedibile riorganizzazione delle società di massa. Secondo le loro parafrasi artistiche e letterarie, le élite avrebbero potuto preservarsi e sopravvivere a sé stesse, nutrendo il culto della bellezza, avvertita, in senso lato, quale sunto di eleganza e stile di vita, imprescindibilmente legato alla valorizzazione dell’arte, della cultura e dell’io.
Le ricerche per il saggio sono state condotte dall’autore in collaborazione con Ludovico Baldelli, Elisa Larese e Vittoria Meoni, ricercatori del Museo archives Giovanni Boldini Macchiaioli di Pistoia.
Si ringraziano Alessandro Tonacci e Roberta Valbusa, responsabili degli Archivi e Biblioteche della Fondazione del Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera, per le puntuali indicazioni fornite in merito ai carteggi dannunziani lì conservati.
Di Tiziano Panconi
Intorno al 1871, anno in cui Boldini si trasferì a Parigi da Firenze, dove aveva fatto parte del gruppo dei Macchiaioli, la città era frequentata una moltitudine di artisti, per lo più riuniti in specifici quartieri, trasformati in cités d’artistes.
Sulla rive droite della Senna, nella zona tra la collina di Montmartre e Place Pigalle – dove il peintre italien visse, al numero 11, fino al 1886 – si trovavano vere e proprie “case d’artista”. Qui, non di rado, i pittori condividevano gli spazi di lavoro per poi incontrarsi a dipingere all’aria aperta e, più tardi, ritrovarsi ai caffè come La Nouvelle Athènes, al numero 9 della stessa piazza, dove l’amico degli anni fiorentini, Marcellin Desboutin, aveva trasferito il quartier generale degli impressionisti, allontanandoli dal fin troppo affollato Café Guerbois.
Sullo stile di vita bohémien e sul clima decadente delle piccole strade che correvano sconnesse fra gli slarghi e le vigne della vecchia provincia agricola, la sera si apriva lo scandaloso sipario del demi-monde, inondato dall’alcol e gremito di prostitute i cui clienti abituali erano gli stessi mariti ed “irreprensibili” capifamiglia della borghesia francese che le disprezzavano di giorno.
Se per i parnassiani la bellezza costituiva un valore assoluto e trasmissibile, le novelle filosofie decadentiste imputavano al progresso e alla produttività la responsabilità di ostacolare la felicità, percepita quale necessità spirituale insopprimibile dell’umanità, producendo laceranti frustrazioni proprio in un’epoca in cui la borghesia stava assistendo alla caduta dei dogmi tradizionali e di quei valori ritenuti fino ad allora universali. Questo clima di decadenza morale fu spesso abbracciato dagli artisti ma anche denunciato quale controverso contraltare e vera cartina di tornasole di un protocollo sociale sovraccarico di pretese virtù etiche, a tutti gli effetti effimere e vacillanti, oramai destituite dalla storia e dall’ondata di progresso generata sia dalle conquiste della scienza e della tecnologia sia dall’avvento delle moderne filosofie liberali.
Del resto, l’inedito riversarsi in città di centinaia di pittori, ognuno tormentato dalla permanente ossessiva necessità di individuare scorci, figure e soggetti originali, dette luogo a una sorta di “studio di massa” senza precedenti – al limite della psicoanalisi – dei luoghi, degli ambienti e delle attitudini di quell’umanità così eterogenea.
Lo stesso Boldini, dapprima, coniò un’originale sintassi di vibrante e raffinata resa naturalistica, rettificata da continui virgolettati, per poi avvertire tutti i limiti di quella cifra così esasperatamente puntuale ed educata che per sua stessa natura rigettava i concetti drammatici, risultando inadeguata a scandagliare gli abissi dell’anima. Dunque “il mestiere”, benché magistrale, e perfino la trascrizione iperrealista del soggetto non supportavano più, completamente, quella sensibilità psicologica dell’opera alla quale si poteva pervenire soltanto attraverso particolari e inedite soluzioni stilistiche in forte dissonanza con i canoni di grazia e armonia borghesi, sebbene questi fossero condivisi e generosamente remunerati, per esempio, dalla ricca clientela della Maison Goupil, principale committente del maestro italiano dal 1871 al 1878.
Intorno al 1879 – quando la prosa dannunziana si legava attraverso la pubblicazione di Primo Vere alla metrica barbara di Carducci – per Boldini fu tempo di una svolta radicale e il registro narrativo, certamente anche grazie alle sperimentazioni condotte nella garçonnière di rue Pierre Demours durante gli incontri con l’intrigante contessa de Rasty, fu improvvisamente attraversato dalla rappresentazione emozionale dell’amante, colta in pose esplicite e sinuose, nuda o fra le lenzuola, liberando una prorompente carica erotica e sensuale che costituì anche in seguito la traccia, e sovente la sottotraccia, della ritrattistica muliebre da cavalletto. Trasportato dalle vertigini della passione, l’artista si era cioè trovato quasi occasionalmente a spingere con foga, per la prima volta senza censure, su un pedale narrativo sfrenato, a lui sconosciuto, mediato soltanto dall’eleganza del filtro stilistico, quasi come se i propositi creativi e culturali posti in opera a termine degli appuntamenti clandestini potessero riscattare o restituire dignità a quella relazione fosca, fondata sul tradimento della compagna e del marito.
Il contesto socio-culturale nel quale era calata la descrizione eccitata e voyeuristica dei muliebri umori non era diverso da quello messo più tardi in prosa dallo stesso d’Annunzio, quando Andrea Sperelli, protagonista de Il piacere, preparava con maniacale attenzione l’alcova vivendo lo spasmo dell’attesa di Elena, quali atti di pretesa redenzione estetica e morale: “aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d’Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d’argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto. L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz’ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov’era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell’appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L’ansia dell’aspettazione lo pungeva così acutamente ch’egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale”
“Boldini” scrive Sgarbi “fu il primo pittore italiano a tornare europeo, a poter sostenere, ben più di Hayez rispetto a Delacroix o di Fattori rispetto a Courbet, il confronto alla pari con gli artisti della sua generazione”. Si era cioè rinnovato quel primato avanguardistico della pittura sulla letteratura che dalla metà degli anni Sessanta aveva visto Signorini ispirare l’analisi verista di Capuana, che ne mutuò gli assunti concettuali nel loro evolversi innovativo, riconoscendo per primo che “io devo a lui […] come divenni novelliere”.
Nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento arte e letteratura intrapresero quella che più tardi Croce definì “la grande conversazione”, partecipando alla quale gli autori avevano circoscritto i propri perimetri d’indagine agli orizzonti domestici della provincia con i suoi costumi regionali e le sue peculiarità locali che, in reciproco dialogo, definivano il quadro culturale ed estetico dell’Italia post-unitaria.
La Toscana – in cui d’Annunzio ambientò nel 1902 La pioggia nel pineto e dove trascorse parte della propria vita, prima a Prato nell’adolescenza, conoscendovi il primo amore Giselda Zucconi, e poi a Settignano, nella sfarzosa villa La Capponcina a fine e inizio secolo – fu epicentro di sodalizi artistici e crocevia di pittori, scultori e letterati.
Fra questi, solo per portare alcuni esempi funzionali al nostro discorso, lo scrittore Carlo Placci, in rapporti con Boldini, nonché, come d’Annunzio, legatissimo all’amico dei Macchiaioli Enrico Nencioni e tutti e tre collaboratori della rivista romana “Cronaca Bizantina” – edita dal 1881 al 1886 – sulle cui pagine il giovane poeta mise a fuoco le proprie strategie culturali e narrative, plasmando i primi miti, intrisi di ricercata eleganza decadentista.
Il letterato e politico fiorentino Ferdinando Martini, che aveva favorevolmente recensito Primo vere, fu tra le personalità di riferimento del periodo
Una rappresentazione emotiva e dettagliata, serratissima, stilisticamente speculare, come vedremo, mutatis mutandis, alle sovrabbondanti e spagnoleggianti morfologie pittoriche michettiane. D’Annunzio adottava le strutture sintattiche del “verbo dipinto” dell’amico e conterraneo abruzzese, arricchendo i periodi continuamente interrotti e complicati da incisi e aggettivazioni ripetitive, proprio come l’estenuante reiterarsi, ritmico e musicale, di quei leggeri “tocchi” di finitura imbevuti di mezze tinte, stesi sugli incarnati per romperne la monotonia cromatica, rendendoli vivi e palpitanti.
Non diversamente dal Boldini e dal Michetti del decennio precedente, d’Annunzio faceva sfoggio di uno stile – tanto artificioso e carico di preziosismi da sopraffare il soggetto della narrazione – sciorinato attraverso il susseguirsi di licenze poetiche e arrotondamenti musicali, come parole tronche o allungate con le doppie vocali finali e il sistematico ricorrere ad antitesi fonetiche.
Se questa concettuale adesione al fortunysmo di Michetti, per quanto mediata, postuma e letterariamente traslata, non è stata fin qui evidenziata dalla critica, fu lo stesso poeta invece a chiarire, in apertura al romanzo, il suo massiccio debito metodologico nei confronti del pittore abruzzese: “a te che sei tanto acuto conoscitor di anime quanto artefice di pittura io debbo l’esercizio e lo sviluppo della più nobile fra le facoltà dell’intelletto: debbo cioè l’abitudine dell’osservazione e debbo, in ispecie, il metodo”.
La cifra boldiniana, fino ad allora abituata alle minuziose puntualizzazioni dei minuscoli pennellini e impareggiabilmente sciorinata nelle finitissime tavolette alla fiamminga che avevano incantato il pubblico di mezzo mondo nel lustro precedente, nel volgere di qualche mese subì una sostanziale trasformazione.
Insomma, ciò che per quasi tutti gli anni Settanta era stato ritenuto scomposto ed esteticamente sconveniente, fu recuperato e assunto quale fruttuoso terreno di ricerca. Si assistette così al moltiplicar- si delle prospettive inverosimili, delle figure fuori centro tagliate alla Degas, instabili o riprese come a loro insaputa, estranee a ogni atteggiamento posato.
Se sul versante letterario fu più tardi, nel 1889, che Mastro don Gesualdo, e con lui il Verismo di Verga, morirono, idealmente, fra le braccia del giovane aristocratico abruzzese Andrea Sperelli, su quello pittorico, Boldini, con circa un decennio di anticipo, aveva aperto la strada all’estetismo e al fascino decadente delle sue donne cerulee, seppellendo, per lo meno sul proscenio internazionale, il realismo dei Macchiaioli, evolutosi man mano in quel naturalismo che aveva a quell’altezza esaurito il suo impulso riformatore romano, così come riconobbe quale esempio di artista aristocratico il ritrattista concittadino Michele Gordigiani, la cui figlia era una della più intime amiche della compagna Eleonora Duse e con la quale Gabriele intrattenne rapporti e corrispondenze epistolari, trasfigurando nel romanzo Il Fuoco la malattia di Michele e lo sconforto della ragazza: “vide l’orribile minaccia sospesa sul genio di quell’artefice ch’era parso fecondo e infaticabile come un maestro antico, come un Della Robbia o un Verrocchio”.
D’Annunzio riconosceva all’insigne pittore fiorentino un ruolo di primo piano nella cultura figurativa ottocentesca, così come, a suo modo, aveva fatto molti anni prima, nel 1864, appena giunto a Firenze da Ferrara, il giovanissimo Zanin, presentandosi a lui con una lettera di raccomandazione del padre pittore Antonio: “Egli ha celebrato l’eterno femminino, per quella sua precipua sapienza tecnica in cui primeggiava, maestro nell’esprimere il brillio di un gioiello, il broccato di una veste, il trinato candore di un merletto, il roseo imperlato di uno scollo di dama altera, l’incarnato velluto d’un volto di una bella donna”.
Gabriele era profondamente affascinato da Giulietta Gordigiani, tanto da corteggiarla e trasfigurarla, sempre nel Fuoco, nel personaggio di Donatella Arvale.
Sulla scorta delle esperienze maturate durante il primo soggiorno romano del poeta, Il piacere fu scritto a Francavilla al Mare tra il 1888 e il 1889, in una sorta di lungo ritiro contemplativo, ospite nell’ex convento e dimora del fraterno amico Francesco Paolo Michetti, “il Conventino”. Circostanza che, prima ancora del successivo incontro con Gordigiani, ci appare l’ennesimo punto di contatto tra la biografia di d’Annunzio e quella di Boldini, espressione inoltre della precisa volontà dello scrittore di avvalersi delle arti figurative quali fonti di libera ispirazione poetica ed estetica, per affrancarsi così dal rischio d’esser tacciato di plagio, come ac- cadde all’indomani della pubblicazione di quello che fu definito dalla critica il “poema moderno”. Una sorta di esaltazione e, al contempo, di condanna dell’ambiente nobiliare capitolino che costitutiva tuttavia, in quel momento, un fertile terreno per l’emancipazione sociale del poeta intento nel descrivere i propri moti interiori, tutto sommato inconsistenti per l’economia del racconto.
Se la coeva letteratura francese di Huysmans gli aveva offerto spunti stilistici, metaforici e narrativi rispetto ai quali sarebbe risultato più prudente mantenere una certa distanza, la pittura, pur correndo su un binario espressivo apparentemente parallelo, ben accentuava invece quel senso di profonda eleganza spirituale che specialmente nell’opera di Michetti, fra il 1875 e il 1880, fu portata ai limiti della prefigurazione di un simbolismo estetizzante e talvolta onirico, tanto da spingere il poeta a scrivere: “il Corpus Domini [1877] era per tutti noi, cercatori irrequieti di un’arte nuova, il Verbo dipinto”. E ancora nel 1883, recensendo La raccolta delle zucche (cat. 153) dipinta dall’amico dieci anni prima, scriveva: “Il paesaggio è di Bolognano, un fondo di paesaggio roccioso, erto, a strisce bianche, grigiastre e rossigne di ruggine, che fa pensare a una rui- na immane di pagoda, a frammenti di colossi buddistici. Un vapore latteo fluttua nell’aria mattinale, sale dalli acquitrini verdognoli; e le piante dalle larghe foglie ruvide serpeggiano, s’intrecciano sul terreno, si levano in gruppi per l’alto. Per quella freschezza vaporosa vengono uomini e donne con enormi ‘cocozze’ in capo, ‘cocozze’ gialle, verdi chiazzate, di strane forme, di strani contorcimenti, simili a teschi mostruosi, a vasi guasti da gonfiori, a trombe barbariche, a tronchi di grossi rettili disseccati. È un effetto fantastico, quasi di sogno; ma la scena è reale”.
Al pari della maniera boldiniana del cosiddetto “periodo Goupil” (1871-1878), lo stile di Michetti era permeato dello “spagnolismo” alla Fortuny, che tanta eco conobbe non soltanto in patria ma anche fra Roma, Napoli e Parigi, carico di espedienti pittorici e suggestionanti effetti cromatici.
Il poeta subì il fascino abbagliante di quegli orditi grafici traboccanti di luccichii, vedendovi definitivamente imboccata la strada di quel progresso tanto atteso e la provvidenziale opposizione al concetto di separazione fra l’opera e l’autore, chiamato da Capuana a scomparire ed eclissarsi nel testo, tacendo le sue opinioni, affinché gli eventi si producessero in perfetta autonomia, trascritti quale fedele specchio moralistico della realtà.
Così, commentando l’Esposizione di Napoli del 1877, Adriano Cecioni ammoniva un certo tipo di pittura considerata di facile presa, poiché riteneva “sbagliato quando il tono è alterato per renderlo più bellino e seducente, come fanno tutti i seguaci di Fortuny principiando da Michetti, Dalbono e compagnia bella; i quali non hanno studiato mai la natura, ma gli artifizi del loro Caposcuola”.
Michetti, al contrario, sul versante iconografico era rimasto imbrigliato proprio nella religiosa adesione a quella poetica naturalista, di cui Cecioni fu tra i principali teorici, tipicamente italiana e in particolare centro-meridionale e vernacolare, mentre sul piano stilistico era in effetti caduto mani e piedi nelle mirabolanti spire del fortunysmo che, pur con le sue ridondanze, negli anni Settanta costituì tuttavia una provvidenziale opportunità di internazionalizzazione del vocabolario espressivo non soltanto michettiano. Una certa vena folkloristica caratterizzava del resto, a prescindere, quella stagione della pittura del Mezzogiorno d’Italia e così Michetti, nel Corpus Domini, spiegava senza incertezze le sue eloquenti iperboli cromatiche, traslate, anche nei timbri retorici, nel successivo gergo dannunziano. Boldini, dal canto suo, aveva invece in parte disattivato il prototipo fortunyano, mutuandone le accezioni peculiari, specialmente quelle ornative, trascrivendole però in un contesto lessicologico estremamente complesso e va- rio. Se ne svincolò più facilmente nei ritratti e questo fu possibile soprattutto grazie alla sua strabiliante padronanza tecnica, capace di ridurre nell’ombra perfino il geniale caposcuola catalano, con il quale, nei primissimi anni Settanta, si avvicendò quale pittore capofila della Maison Goupil.
Gli echi del fortunysmo non risuonarono tuttavia a lungo nel modellato dell’artista e sullo scorcio de- gli anni Settanta quegli schemi descrittivi, fin lì di grande successo, furono completamente scompaginati dal definitivo crescendo della sua sensibilità
I luccicanti saloni dei fastosi palazzi patrizi entro i quali avevano conversato deliziosamente damine e marchesini svanirono per sempre dall’immaginario pittorico boldiniano, e con essi il gusto Impero e le certezze sociali nelle quali si era riconosciuta fino ad allora l’alta borghesia francese.
Se Boldini avvertì la portata progressista dell’Impressionismo – le cui radici affondavano nel concetto di “impressione” coniato dai Macchiaioli sul finire degli anni Cinquanta e ratificato da Cecioni negli antesignani scritti del periodo: “L’opera d’arte non è altro che lo sviluppo di un’impressione ricevuta” – pur tuttavia non ne condivise in toto, come del resto era accaduto anche per la sintesi macchiaiola, la completa rarefazione dell’ordito pittorico. Questo, non soltanto perché l’artista era già impegnato nelle originali sperimentazioni sulla mimica e sulla dinamicità dei corpi posti in rapporto attivo con l’ambiente circostante, ma anche perché il definirsi, via via, di questo nuovo glossario verteva proprio sulla possibilità di intervenire soltanto ed espressamente a parziale modifica e alleggerimento dell’impianto descrittivo naturalista e delle sue salde strutture luministiche e prospettiche.
Dunque quella svolta così radicale – in un certo senso antinaturalista e, in nuce, a vocazione espressionista – non poteva risultare funzionale al suo singolare approccio con la realtà, filtrata attraverso una lente quanto meno bifocale, capace persino,
come nelle vedute veneziane, di ribaltare il cono ottico, sfocando i primi piani e mettendo inaspettatamente a fuoco particolari situati in lontananza. Insomma, se l’osservazione del vero permaneva quale impianto strutturale, a partire da quei fondi violacei degli interni plumbei e inquieti come cieli autunnali, si spiegavano invece concerti di pennellate ritmiche e liberissime. Mentre le tonalità, accordate sulle scale dei grigi, evocavano riflessioni sentimentalistiche, riverberando tutta la malinconia manifestata dagli sguardi struggenti e penetranti.
Certamente seducente, modernissimo e permeato di invitanti liquefazioni pittoriche, l’impressionismo di Monet tracciava una rotta irreversibile verso rese atmosferiche e figurazioni impalpabili di cui anche Boldini tenne conto.
La familiarità con Michetti non dovette costituire il miglior viatico per la realizzazione di un rap- porto di amicizia fra d’Annunzio e Boldini, visto che quest’ultimo non apprezzò che il principale premio della giuria alla prima Biennale di Venezia del 1895 fosse stato conferito al pittore abruzzese per La figlia di Jorio, mentre quello del Governo a Segantini e a lui soltanto il riconoscimento dei Comuni della Provincia.
Il poeta lasciò in Boldini – sostanzialmente indifferente alla letteratura – l’impressione di un uomo e scrittore eccentrico, estremamente accentratore nell’accezione più plateale del termine e per questo ingombrante, tanto che, in una lettera al fratello Gaetano scritta molti anni più tardi, lo definì: “esagerato alla d’Annunzio”
Il tema della decadenza dei valori, affrontato con Il piacere nell’ottavo decennio del secolo, era stato ed era ancora centrale nelle riflessioni estetiche e negli aggiornamenti concettuali e tematici di Boldini, che già intorno al 1879 aveva dipinto una serie di opere fondamentali, fra le quali per esempio Giovane coppia su un divano nello studio di un pittore, oltre a rappresentare i locali affollati delle Folies Bergère, realizzati in una commistione di mobilità pittorica ed eccitazione materica estenuanti. Nel 1886 la crisi sociale era stata presa a soggetto dalla rivista “Le Décadent”, da Paul Verlaine e dai cosiddetti poeti maledetti: “Sono l’Impero alla fine della decadenza, che guarda passare i grandi Barbari bianchi componendo acrostici in- dolenti in uno stile d’oro dove danza il languore del sole”.
Nel quadro delle dinamiche sociali che legarono Boldini a d’Annunzio, emigrato in Francia fra il 1910 e il 1915 per sfuggire ai creditori, un posto speciale spetta certamente alla figura di Mary Dorothea Labouchère, detta Dora, emblematicamente ritratta dal maestro in una serie di dipinti nel 1910.
La ragazza era figlia di Henry Du Pré Labouchère, politico e giornalista inglese trasferitosi definitivamente a Firenze nel 1906, dove morì nel 1912 la- sciandole un enorme patrimonio.
Nel 1903, a soli diciannove anni, la futura ereditiera convolò a nozze con Carlo Emanuele, marchese di Rudinì, il cui padre, Antonio Starrabba, latifondista e per due volte primo ministro del Regno, era stato a sua volta ritratto da Boldini nel 1898.
Carlo volle quale testimone di nozze l’amico Gabriele, il quale in quell’occasione conobbe, o forse rivide, la sorella Alessandra, giovane vedova del marchese di Riparbella, Marcello Carlotti, morto tre anni prima, dal quale aveva avuto due figli.
Approfittando dell’assenza, in quei mesi, della Duse impegnata in una tournée europea, Gabriele corteggiò e presto sedusse l’avvenente aristocratica, cui in precedenza non erano mancati illustri pretendenti, come il gran duca Sergio della famiglia imperiale russa, e che fin da ragazzina aveva mostrato un temperamento esuberante, essendo stata anche espulsa dal collegio del Sacro Cuore di Trinità dei Monti a Roma proprio a causa della sua indole inquieta.
Così, nel marzo del 1904, giunta a termine la convivenza con la Duse, Alessandra, ribattezzata dal poeta Nike per la sua bellezza statuaria, nonostante l’assoluta contrarietà del fratello e del padre, decise di trasferirsi con il poeta a Settignano, alla villa La Capponcina.
L’anno successivo, ammalatasi di un tumore all’utero, subì un complesso intervento chirurgico e, ricoverata nella clinica fiorentina Villa Natalia, fu premurosamente assistita dal compagno ma ignorata dal padre e dal fratello, ancora furibondi con d’Annunzio. Sebbene la ragazza si fosse ristabilita, il poeta, come di consueto, perse progressivamente interesse nei suoi confronti e la relazione si spense fra 1906 e il 1907, quando l’ex amante si trasferì a Roma, prendendo poi i voti.
Fu più tardi, intorno al 1913, che il rapporto fra il poeta e la famiglia Rudinì avrebbe assunto contorni più opachi, oggi in parte ricostruibili grazie al ritrovamento di tre lettere inedite indirizzate da d’Annunzio a Dora, dalle quali si evince la loro relazione segreta, finora sconosciuta alle cronache storiche ma di cui avevamo in passato dichiarato il sospetto, originato da taluni episodi conflittuali fra lei e la Casati, cioè l’amante per così dire “nota”, che non avrebbero trovato altrimenti giustificazione. Nel primo foglio in particolare, “l’amorevole” d’Annunzio scrisse a Dora di aver chiesto sue notizie alla marchesa Casati alla quale, evidentemente, non passarono inosservate queste attenzioni apparentemente innocenti. Pubblichiamo dunque qui, per la prima volta, queste pagine, gelosamente custodite in segreto per oltre un secolo, quali anello di affrontato nel nostro saggio pubblicato nel catalogo della grande mostra boldiniana del 2017 al Vittoriano di Roma.
Lettera 1, Fogli 1-2 [tradotti dal francese]
Ex libris in alto a sinistra: “Per Non Dormire”
Cara Dora,
Anche io vorrei tanto vedervi.
L’altra sera ho domandato di voi alla Marchesa Casati.
Verrò a pranzare con voi domani, venerdì 13 [disegno con gesti di scongiuro] Ma a che ora?
Il vostro molto devoto amico
Gabriele d’Annunzio
P.s.
Hotel Maurice,
Questo giovedì
Lettera 2, Fogli 3-4
Ex libris in alto a sinistra: “Per Non Dormire”
Cara terribile Dora,
Ho preso freddo ieri tornando in automobile e stamani ho un vile raffreddore che mi impedirà di avvicinarmi stasera a una creatura divina come voi siete.
Sono qui pieno di tristezza e umiliazione. Mi sentirei un poco consolato se potessi sperare di avere una di queste prossime sere, la gioia e il supplizio di accompagnarvi. Quando?
Com’eravate strana e dolce ieri! Una magnolia con un cuore nero.
Il vostro Gabriele
P. S. Rue Bassano III Questo giovedì?
Lettera 3, Fogli 5-6
Cara Dora,
Chiedo perdono umilmente di non aver risposto l’altra volta.
Sono impegnato per sabato, ma mi libero per avere la gioia di rivedere i vostri occhi.
A sabato sera, dunque, Grazie.
Il vostro per sempre Gabriele.
Alla luce di questa scoperta e sebbene l’ex libris in alto a sinistra di alcune di queste lettere, certe scritte in francese, rimandi al soggiorno d’oltralpe del Vate intorno al 1913, vi è da domandarsi quando ebbe effettivamente inizio la loro intesa e se possa essere addirittura ricondotta al decennio precedente. Un’ulteriore testimonianza del rapporto fra Gabriele e i Labouchère è fornita da un telegramma in entrata, conservato nell’Archivio Generale del Vittoriale degli Italiani, datato 16 marzo 1904, sulla cui busta è genericamente annotato Labouchere (madame): “Quando lei ritorna a Firenze voglio vederla e parlare per la figlia di Giorgio [sic!] Alexander di Londra vuole comperarla. Prego rispondere. Madame Labouchere, Villa Cristina”. Recando l’indirizzo fiorentino non è dato tuttavia sapere se la missiva sia stata trasmessa da Dora o dalla madre Henrietta Hodson.
La contiguità con la famiglia Rudinì si consolidò ufficialmente, come abbiamo detto, prima con la partecipazione del poeta al matrimonio di Dora in qualità di testimone e poi con l’inizio della sua relazione con la cognata Alessandra.
In queste epistole si coglie forse il senso più profondo del decadentismo morale dannunziano, di cui Il piacere oggi potrebbe forse apparirci la sublimazione letteraria, in una combinazione fra vis inventiva e una realtà che va oltre ogni borghese immaginazione, nella quale vi è, evidentemente, una completa identificazione fra narratore e protagonista. Probabilmente la stessa di quando, nel 1910, vestendo nel romanzo di mortali passioni Forse che sì forse che no i panni dell’aviatore Paolo Tarsis, attribuì una vicenda incestuosa alla famiglia patrizia degli Inghirami di Volterra.
Una cifra narrativa che ne Il piacere esplora gli abissi della coscienza, annichilita dai fremiti potenti e primitivi della passione che scandiscono e riempiono i tempi psicologici dell’ozio, prevalendo sempre e comunque sui dubbi intellettualistici e sui moniti etici indotti dal pensiero occidentale.
Se il mito del superuomo ricorre nella letteratura e nella vita sregolata e inimitabile del poeta, è lo stesso Boldini a delineare in alcune lettere il pro- filo psicologico altrettanto irrequieto e estroverso di Dora, definendola “Perfida Divina! appellativo che ricorre nel linguaggio di entrambi gli artisti – e lamentandosi perché “impossibile […] acchiapparla, tenerla! Sfugge, ritorna, risfugge”. Nonostante le innumerevoli amicizie in comune lascino immaginare un rapporto punteggiato di contatti più o meno occasionali ma comunque frequenti, nonché vissuto nella piena consapevolezza dei rispettivi ruoli di eccezionali protagonisti della cultura del tempo, gli incontri documentati fra il pittore e il poeta risultano invece piuttosto esigui.
Uno fra i primi e più importanti, che invero sembrerebbe presupporre una familiarità precedente, avvenne nel settembre del 1908, quando Boldini raggiunse d’Annunzio a Venezia per incontrare la marchesa Casati “a colazione all’Hotel Danieli. Era vestita di nero da capo a piedi, adornata con una delle sue ormai usuali e lunghe collane di perle. Mentre si avvicinava al tavolo, notò che il suo amante non era solo. Accanto a lui c’era un uomo sulla sessantina e oltre, tanto basso quanto grassoccio, con due baffi grigi spessi e un paio di occhiali a stringinaso agganciati in cima al naso bulboso. Proprio in quel momento, la collana di Luisa si ruppe, e le perle rimbalzarono sul pavimento del ristorante. L’estraneo si gettò carponi a offrirle aiuto”.
Oltre ai reciproci saluti, ripetutamente affidati, negli anni a venire, a comuni amici, il loro rapporto si sostanziò, in effetti, in due presunte raccomandazioni del poeta in favore dell’artista, che il 23 maggio 1911 chiedeva la sua intercessione per poter realizzare il ritratto dell’attrice e ballerina russa Ida L’vovna Rubinštejn con il costume da guerriero indossato nell’esibizione parigina de Il martirio di san Sebastiano, composto per lei da d’Annunzio. La condivisione di punti di vista espressivi sensibili estremamente sofisticati, a tratti capaci di manifestarsi quali francesismi in Italia e italianismi in Francia, sovente disallineati e fuori dal coro, li accomunò nella denuncia della crisi morale dei ceti sociali più alti che, alle soglie del Novecento, avrebbero dovuto affrontare la sfida della radicale e imprevedibile riorganizzazione delle società di massa. Secondo le loro parafrasi artistiche e letterarie, le élite avrebbero potuto preservarsi e sopravvivere a sé stesse, nutrendo il culto della bellezza, avvertita, in senso lato, quale sunto di eleganza e stile di vita, imprescindibilmente legato alla valorizzazione dell’arte, della cultura e dell’io.
Le ricerche per il saggio sono state condotte dall’autore in collaborazione con Ludovico Baldelli, Elisa Larese e Vittoria Meoni, ricercatori del Museo archives Giovanni Boldini Macchiaioli di Pistoia.
Si ringraziano Alessandro Tonacci e Roberta Valbusa, responsabili degli Archivi e Biblioteche della Fondazione del Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera, per le puntuali indicazioni fornite in merito ai carteggi dannunziani lì conservati.
Di Tiziano Panconi
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