A cinque anni dalla scomparsa ci è parso utile restituire, in questa sede e nell’occasione di una nuova mostra dedicata ai Macchiaioli, un ricordo e uno scritto inedito di uno dei padri della critica d’arte novecentesca, Dario Durbè, impegnato per oltre sessant’anni nello studio e nella ricostruzione, specialmente in chiave storica, delle complesse vicende umane e artistiche di questo novero di rivoluzionari pittori.
La sua militanza specialistica si innestò, a partire dal dopoguerra, nel filone di contributi soprattutto monografici aperto, qualche decennio prima, da altri grandi letterati come Ugo Ojetti, Enrico Somaré e dagli elzeviri di Emilio Cecchi, in bilico fra critica e prosa, nonché da quel profondo connoisseur che fu Mario Borgiotti, e la sua opera critica contribuì fin dagli anni sessanta e settanta alla modernizzazione dell’approccio alla materia e al graduale passaggio dalla critica di impostazione letterario-narrativa a quella scientifica, costantemente verificata attraverso la ricerca e lo spoglio delle fonti documentarie e, non di rado, topografiche. Nel suo registro dialettico si avvertono infatti continui rimandi a quel genere ricco di connotazioni esegetiche e filologiche, elegantemente pletorico, da “Gazzetta letteraria”, affermatosi nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, fecondo di indovinatissimi ritratti d’artista. In tal senso un esempio fra i più emblematici della bibliografia specifica è costituito dalle lettere di Giosuè Carducci e Ferdinando Martini e dalla prefazione di Gustavo Uzielli pubblicati dalla Tipografia Domenicana nell’antefatto di Scritti e Ricordi di Adriano Cecioni nel 1905, dai Ritratti letterari dedicati con uno stile squisitamente giornalistico ai grandi scrittori francesi da Edmondo De Amicis nel 1902 e dalle introduzioni di Enrico Somaré, come quella stampata per i tipi de L’Esame, per il catalogo di Signorini del 1926.
Nella sterminata bibliografia durbettiana si distinguono il monumentale tomo, introdotto da Lamberto Vitali, pubblicato in italiano in occasione della grande mostra sui Macchiaioli tenutasi al Petit Palais di Parigi nel 1978, le cui pagine raccolgono una delle più organiche analisi storiche sulla nascita, l’evoluzione e la conclusione dell’esperienza macchiaiola, e la serie di pubblicazioni su Fattori, in un crescendo costante di nuove ricerche e testi filologici, alcuni ancora inediti, estremamente capillari e oggetto, da parte dell’autore, di continue e per certi versi persino ossessive puntualizzazioni e revisioni sovente chiosate a mano, costituendo la spina dorsale di un catalogo ragionato sul pittore che attendeva la luce almeno dalla fine degli anni novanta, sebbene frenato dal sopraggiungere della senilità e infine interrotto dal definitivo deterioramento dello stato di salute.
Durbè nacque a Firenze nel 1923 dal matrimonio celebrato l’anno precedente fra Carlo, decoratore e antiquario di origine francese, classe 1896, titolare di un negozio di antichità in via Cairoli a Livorno, città dove viveva con la famiglia, con Amalita Niccodemi, nata a Buenos Aires nel 1900, con cui ebbe fin da bambino accesi contrasti poi risultati insanabili.
Trascorse la prima infanzia godendo dello speciale affetto del nonno materno, il celebre commediografo Dario Niccodemi. La cultura vastissima ed eclettica di Durbè, affondando le radici anche ella letteratura e nella commediografia francese, spaziando dalle materie letterarie alla musica fino al teatro e al cinema, si era infatti forgiata sulle imponenti e vastissime librerie moganacee del nonno che aveva letteralmente scalato, libro dopo libro, trascurando il gioco.
Conoscevano bene il suo impegno intellettuale gli amici più stretti, come i registi Paolo e Vittorio Taviani, allora animatori del Cineclub di Pisa e assidui avventori di Livorno, che come lui, intorno alla metà degli anni cinquanta, si trasferirono a Roma.
Una delle sue ultime fatiche, consegnata alle stampe nel 1996, fu infatti una nuova traduzione dell’antologia di versi Les Fleurs du mal di Baudelaire, illustrata da Giulia Napoleone: a tale scopo la figlia Carla riferisce di aver intrapreso con il babbo almeno due viaggi a Parigi e io stesso conservo una copia del prezioso tomo da lui donatami con una punta di fierezza e tanto di dedica.
La scomparsa di Niccodemi nel 1934 e poi quella prematura del padre, nel 1939 a soli trentatré anni, a causa di un incidente ferroviario, accorciò di certo le prospettive del giovane Durbè, che proseguì tuttavia brillantemente il percorso di studi fino a laurearsi nel 1948 all’Università di Pisa, discutendo una tesi su Fattori con Matteo Marangoni, compositore musicale, francofono e storico dell’arte di estrazione crociana, già direttore della Pinacoteca di Brera e di quella Nazionale di Parma. In quegli anni Durbè era anche un giovane militante del Partito Comunista Italiano, divenendone poi, inevitabilmente, fra i referenti di spicco per la programmazione delle attività culturali, circostanza che gli consentì di tessere una fitta rete di relazioni romane, frequentando via delle Botteghe Oscure.
Nel 1956 si trasferì così, definitivamente, nella Capitale dove nel 1964 fu nominato ispettore della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, riorganizzando le collezioni di pittura dell’Ottocento fino redigerne il catalogo generale. Lavorò fianco a fianco alla storica direttrice Palma Bucarelli – al vertice del museo dal 1941 al 1975, allorquando le successe Italo Faldi – con la quale i rapporti furono proficui e di vicendevole stima sebbene non sempre disinvolti, a causa delle “famose” sfuriate della direttrice e della sua predilezione per la pittura informale e astratta.
Durbè divenne soprintendente della Galleria nel 1975 e nel 1984 fu “promosso e rimosso” ispettore centrale presso la direzione generale del Ministero dei Beni Culturali, un incarico non più direttamente operativo, ricoperto fino al pensionamento avvenuto nel 1988.
Sullo scorcio degli anni novanta, quando anche io abitavo in via Giulia a Roma a pochi passi dal suo studio di vicolo de’ Bovari, mi capitava sovente di scorgere per strada da lontano la sua figura imponente, con il particolare cappello a tesa larga riportato da un viaggio in Argentina e l’incedere lento sostenuto dal robusto bastone.
Tornava in genere da una vicina videoteca con “il bottino” sotto il braccio, poiché, oramai anziano, il suo trasporto per il cinema era deflagrato a tal punto da “divorare”, nelle sale di mezza città o attraverso il videoregistratore di casa indifferentemente, numerosi film ogni giorno.
Qualche volta lo accompagnavo fino al suo portone passeggiando per Campo de’ Fiori, affrontando gli argomenti più disparati per poi tornare sempre, inevitabilmente, alla nostra comune e più cocente passione – i Macchiaioli! – disquisendo su questo o quel dipinto, confrontandoci sullo stato delle nostre ricerche e su quelle verso le quali sarebbe convenuto orientarsi per il futuro.
Fu lui a trasmettermi l’amore per i saggi profondamente introspettivi e per le strutture lessicali cristalline del Cecchi e, negli ultimi anni, dopo la pubblicazione del saggio sui quadri di Sernesi influenzati dal Calame, si propose di dedicare all’autore, dopo quella chiarificatrice di Giampaolo Daddi, una nuova monografia, alla quale lavorò volenterosamente fino a ultimarla, ma le cui pagine giacciono ancora inedite sulla sua scrivania e che oggi abbiamo l’occasione di rendere in parte note, grazie alla gentile concessione dei devoti figli Carla e Antonio.
Questo suo ultimo sforzo costituisce anche una risposta e un’adeguata precisazione, alla quale ci siamo sentiti di dar voce anche se tardivamente, alla polemica innescata da Daddi – nel sopra citato volume del 1977, chiamando in causa il Cecchi, morto undici anni prima – soprattutto all’indirizzo di Giuseppe Intersimone, autore di un catalogo delle opere di Sernesi effettivamente sovrabbondante, ma certamente non nelle proporzioni suggerite da Daddi, e genericamente a “quei critici di tipo enciclopedico” e agli “studiosi titolati”:
“[…] Ora questa necessità, questo bisogno di revisione sembrano particolarmente sentiti a Firenze, ove una combattiva pattuglia – quasi fosse condizionata dal bartaliano, filosofico pensiero […] – più che ritenere utile o magari indispensabile appunto rivedere nelle attribuzioni quelle opere che da critici o mercanti pur di grosso nome, nei tempi prima ricordati furono assegnate forse troppo frettolosamente ai vari pittori, spinge il proprio quacchero rigore a rimettere tutto in discussione.
[…] Astenendosi dall’esaminare con scrupolosa attenzione ogni singolo dipinto per coglierne le caratteristiche ricorrenti e le affinità stilistiche con altri lavori ‘certi’ – e procedere così alla riqualificazione dell’opera sernesiana dandole giusta credibilità – ma preferendo invece dare per già avvenuta detta selezione, essi infatti hanno in pratica accettate le molte ambiguità esistenti, avallato errori, legittimato attribuzioni dubbie, maldestre scorrettezze ed incoraggiato infine, anche se involontariamente, spudorate speculazioni […]”.
“San Marcello, 1861
Le fonti concordano nel riferire al 1861 un viaggio di studio del Borrani e del Sernesi nell’Appennino pistoiese, a San Marcello. Ne fa cenno per primo il Signorini (1867); ne parla brevemente il Cecioni (1905); infine Anna Franchi precisa (1902) che un tale soggiorno si protrasse per i due mesi di giugno e di luglio di quel 1861.
A dire il vero, quest’ultima notizia (che è molto probabile la scrittrice apprendesse dalla viva voce del Borrani, ch’essa negli ultimi anni della vita di lui in ripetute occasioni intervistò) è stata in tempi relativamente recenti revocata in dubbio dal Daddi (1977); e la permanenza dei due artisti fra le montagne pistoiesi ridotta, a giudizio di questo studioso, solo a qualche giorno. Ma, sulla base di dati in nostre mani e considerazioni varie, ridotta, noi pensiamo, a torto.
Intanto già venti, i giorni di viaggio, risultano da un gruppetto di sei disegni di Borrani che danno minutamente conto del movimento dei due amici – a Pisa il 7 giugno, a Pistoia il 10, a San Marcello il 22, a Rio Acereto popolarmente Macereto il 27, in vista della cima del Libro Aperto – […].
Ma che il soggiorno si sia protratto anche nel luglio sembra ben ragionevole, e sta a dimostrarlo soprattutto la stanza certamente non breve che i due amici si concessero nel vasto Podere del Pian dei Termini sulle pendici del monte Terminaccia, in prossimità di Gavinana (una Antica strada per Gavinana figura in un altro dei disegni del Borrani eseguito, a giudicare dalla sua nervosa fattura, se non il giorno stesso di quello del Libro Aperto, a poca distanza di tempo da lì). Nel vasto piano a pascolo dell’arioso nostro Podere, a 1000 metri circa sul livello del mare, i due pittori amici impiantarono, infatti, un cantiere di attività pittorica che è ben difficile immaginare chiuso in meno di qualche settimana. (Per questo luogo da noi pazientemente e miracolosamente scoperto nel 1988 si veda nella nostra Rassegna ragionata delle fonti, delle testimonianze e della bibliografia, la voce: Archivio della Chiesa parrocchiale di San Marcello Pistoiese, 1861).
Borrani, vivamente attratto dalle pendici del monte che con pittoresco e suggestivo effetto panoramico chiudevano a nord-est tutta questa zona, il Terminaccia, da là, come pittore, non seppe più, per così dire, stornare lo sguardo: ovvero ne lo stornò solo di tanto in tanto: di quel poco che, dando una rapida occhiata verso il nord, gli consentiva di scorgere con assorta compiacenza la lunga catena che dal vicino Cupolino e dal lago Scaffaiolo corre allo Spigolino, alla Vista del Paradiso, giù giù fino al lontanissimo Libro Aperto: tutti luoghi che noi vediamo raffigurati in Alture della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, un dipinto di particolare importanza […] anche se non di gran dimensione (cm 14 × 46), e, parzialmente, in Pascolo a San Marcello (cm 19,7 × 36,5; Dini 1981, n. 23; […]) nonché in Paesaggio pistoiese (cm 15,7 × 39,3; Dini 1981, n. 21; […]). Ma l’interesse principale era indubbiamente, nel Borrani, per la veduta del gran monte a ridosso; e tanto più che arrivando sul posto in quell’andare del luglio, cadde inaspettatamente e festosamente sotto i suoi occhi – al panoramico unendosi così lo spettacolare – la mietitura del grano. La mietitura era per solito praticata a quelle altezze dopo la prima settimana di luglio; ed era veduta di cosa, in quella sua specialissima rusticità di montagna, straordinaria e rara, tanto da non poter perdere, il riguardante, l’occasione, se artista, di farne in un vero quadro il ritratto dal vivo. Un ritratto che il nostro Borrani concepì come tela di più che un metro e venti di base da mettere in lavorazione sul fatto, previ due studi assai suggestivi di una della due cime, uno ripreso dall’altro – cfr. in Dini 1981, la scheda n. 20 Pascolo (Paesaggio), dove è notizia delle due versioni. […]
Complessivamente, insomma, per quanto attiene al solo Borrani, sei quadri, cinque di media e uno di rispettabili dimensioni che se anche portato all’ultima finitura in studio, come è ragionevole pensare, non poté non essere avviato contrariamente a quanto finora universalmente e da noi stessi asserito, se non all’aria aperta, attese fra l’altro le sue dimensioni ancora da cavalletto.
Quanto al Sernesi, artista per sua natura introverso e raccolto e di tanto amante della quiete e del silenzio per quanto dal rumore della vita e dalla sua animazione era cordialmente attratto l’amico, traversava un momento assai particolare: una condizione di insolita e personale euforia determinata dal successo del Settembre, il quadretto dei ragazzi che rubano i fichi, molto piaciuto specialmente agli amici pittori e che presentato alla Promotrice dal primo aprile alla fine di maggio ancora animava i suoi modi quando la mietitura, dopo la prima settimana di luglio finalmente cominciò. Lo si vede chiaramente da un gruppetto di opere che per intensità, raccoglimento, velocità espressiva richiamano per l’appunto il Settembre, a cominciare dalle due stupefacenti versioni dei Buoi neri al carro, cioè la duplice effige dei due neri bovini che trascinando il carro sul quale il grano una volta segato veniva a mano a mano raccolto erano divenuti in qualche modo i veri protagonisti di quelle eccezionali giornate. Davvero splendide le immagini che il Sernesi seppe ricavarne, di una faunesca vitalità e di una rara intensità luminosa. Due opere in assoluto fra le sue più belle; e le prime, credo, da lui realizzate a Pian dei Termini, quando cioè il Sernesi rapito dal succedersi animato e veloce delle cose, riacquistava tutta la bella allegria della primavera congiunta alla capacità di esprimere insieme il ferino di quella nuova vita campestre: quasi in omaggio all’alacre collega e per solidarietà con lui che di quella nuova festa degli occhi era il vero motore e il mago. Una festa alla quale il Sernesi sembra partecipare con l’accennato insieme di opere: le due versioni dei Bovi neri, la minore e la maggiore […], poi due freschissimi disegni a carboncino, bruschi, inquieti e spigolosi come gli eventi di quei giorni con raffigurati gli stessi buoi e un mandriano […]; indi un disegno di paesaggio, mobilissimo e arioso […] che si sposa del tutto naturalmente con un piccolo dipinto: Alto Pascolo. Infine questo dipinto stesso davvero d’eccezione, mosso, sensibile e delicatamente inventivo […]. Insomma un Sernesi di prim’ordine, in tutto e per tutto convincente: eppure molto diverso da quello che si rivelerà il nostro artista complessivamente a San Marcello.
C’è un quadro che in certo modo dà il la a questo nuovo volto dell’arte sernesiana: un quadro straordinario per contenutezza e rudimentale semplicità di affetti, eppure proprio per questo veramente toccante e quasi magico, eseguito, crediamo, subito dopo i Bovi neri né molto dissimile da quest’opera esteriormente parlando […]. È un quadro delicato, sommesso del quale avremo motivo di parlare a lungo; di dimensioni presso a poco uguali a quelle della maggiore delle due versioni dei Bovi neri, ma diversamente dalla medesima di ispirazione malinconica. Un quadro del quale offrono il destro al Sernesi una circostanza molto semplice e un sentimento elementare.
Solevano, i fratelli Cini, mezzadri della fattoria di Pian dei Termini (una famiglia di ben quindici unità che verosimilmente ospitava nel suo casale i due nostri amici) solevano quei contadini condurre al pascolo gli armenti per i grotti e per i prati di tutta quella zona come ancora oggi si usa. Anzi – né mancherà di parere la cosa alquanto singolare – a condurvi delle mucche che sono, guarda caso, di una razza che è esattamente la medesima che in oggi il frequentatore di quei luoghi può vedere con i suoi occhi brucare tutto intorno in un percorso assai mosso ed esteso che si ripete a memoria d’uomo – eternità della vita – sempre il medesimo: trovandosi ad essere ancora fino a pochi anni fa come in quel remoto passato guardiano della mandria, il più giovane della famiglia. Nel nostro caso una piccola Annunziata che, con la benedizione di Dio, contava addirittura a quei giorni lontani soltanto sette anni (vedi nell’appena ricordata Rassegna ragionata delle fonti ecc.: Archivio della Chiesa parrocchiale di San Marcello Pistoiese, 1861).
Raffaello rimase manifestamente commosso dallo spettacolo; e sull’onda di un sentimento del genere dipinse, lieve come una piuma e d’un tono raro e prezioso un quadro che nel suo nascere stesso, pur mantenendo tutta la semplicità e la cordialità del primo moto e intera e intatta tutta la grazia della sua origine si veniva insensibilmente amplificando e coniugando nel pensiero dell’autore in un qualcosa di più allusivo, di più severo e di più solenne.
Ricordo che, immerso in questi pensieri, urgeva in me a quel tempo (correva il 1988) un desiderio intenso, impossibile da eludere e che alla fine soddisfeci, quello di mettermi a sedere esattamente nel luogo dove il pittore aveva assicurato anch’egli il suo sgabello. Era per cercare di intendere meglio il motivo che legava così organicamente nella mia fantasia il quadro che era l’oggetto dei miei pensieri con quanto il Sernesi, dopo l’aitanza di quel suo principio in montagna coi Bovi neri e il resto, aveva in successione di tempo operato distinguendosi nettamente nel suo lavoro da quel suo principiare.
Sedutomi dunque nel luogo donde Raffaello aveva positivamente inquadrato la sua scena, mi avvidi presto che volgendo la mia testa prima a sinistra, verso la val di Lima, poi a destra verso il Cimone e i monti che là corrono a oriente, il mio quadro si trovava esattamente al centro di una fascia continua della quale le ali erano formate da due riquadri perfettamente uguali molto allungati e omogenei, entrambi di una tenuta e proporzione e di un andamento che, musicalmente parlando, era in tutto e per tutto consonante. In un attimo mi resi conto del perché il Sernesi avesse potuto decidere a un certo momento di approntare due tele di una certa grandezza (87 centimetri di base) perfettamente uguali una all’altra e capaci di inquadrare esattamente quelle due ali che con tanta suggestione si offrivano al suo sguardo di pittore. Due tele che poi effettivamente gli servirono per dipingere due opere fondamentali dell’intera sua produzione: l’Alba e la Pastura in montagna […].
L’Alba: un primo piano delicatamente ma vivamente scandito dal prato e dalla vegetazione sulla destra; poi il vuoto della valle e, dietro le quinte più vicine, a sinistra del Cerreto e di Colle Alto, a destra di monte Castello, tre cime lontane a formare una lunga catena: il Monte Alto (1203 metri), il Balzo Nero (1315 metri) e la Piastra (1400 metri); dappertutto le prime luci del giorno e il silenzio. Nessuna possibilità per noi di parlar di colore per- ché del quadro già appartenuto alla collezione Rosselli di Viareggio si sono purtroppo perdute le tracce subito dopo la dispersione all’asta seguita nel 1931 della raccolta medesima.
Dell’Alba, la Pastura in montagna è un vero pendant. Uguale l’andamento ascendente da sinistra a destra; in tutto analoghe le solenni e maestose scansioni che movimentano ritmicamente il quadro; uguale il rilievo e lo stacco sul cielo delle chiome alberate; del tutto simile la partizione degli spazi. Ciò che solo distingue il primo quadro dal secondo è la presenza in quest’ultimo degli animali e della figura umana: una presenza che tuttavia serve a dare ancora una volta ai due quadri unità, facendo in qualche modo avvertire il primo come ‘lontananza’ il secondo come ‘vicinanza’.
Una ‘vicinanza’ che in modo particolarmente suggestivo dà specialmente il suo proprio carattere alla prima piccola Pastura dalla quale il pittore – vale davvero la pena di rivelare qui e mettere in luce una tal circostanza mai osservata da nessuno – trasse puntualmente con poche varianti la stesura del primo quarto a sinistra della grande Pastura in montagna da noi appena ricordata: quel primo quarto a sinistra che è pari pari con solo qualche lieve cambiamento, ripresa diligente di quel medesimo motivo, a severo ammonimento di quanti hanno creduto di potere attribuire ad altri che al Sernesi un quadro manifestamente e indiscutibilmente suo.
Eh, già! Perché se in un modo o in un altro si è giunti ad attribuire a Odoardo Borrani – assai gratuitamente d’altronde – un quadro così squisitamente e così patentemente sernesiano come la grande Pastura in montagna; non altrettanto probabile pare sia mai per essere proposta analoga attribuzione a un’operetta come la Pastura: e ciò per inequivocabili ragioni oggettive, inerenti la stessa storia esterna del quadro. Che acquistato dal Ministero della Pubblica Istruzione nel 1885 come dipinto giudicato degno di rappresentare il Sernesi nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna da personalità del livello di Giovanni Fattori, Diego Martelli, Telemaco Signorini, Cristiano Banti, venne giusto da quell’anno (che è quello probabile dell’acquisizione) a far parte delle collezioni dello Stato; poco importa se poi rimanendo infelicemente insabbiato per decenni fra depositi e uffici in ragione dell’inerte o malevola miopia dei pubblici ufficiali succedutisi a disporre dell’opera nel tempo fin quasi ai nostri giorni (si veda, a questo proposito la nostra scheda della piccola Pastura e nella Rassegna ragionata delle fonti etc., le voci Milano 1861, Firenze 1862, Corrispondenza 1884, Corrispondenza 1865).
L’incongruenza nascente da questa impossibilità di attribuzione diventa tanto più contraddittoria e tanto più asseverativa della assoluta, indubitabile autografia sernesiana del grande dipinto, per via dello straordinario strettissimo nesso intercorrente fra i due nostri lavori, dei quali uno, la piccola Pastura può considerarsi non un semplice prece- dente, ma senza meno l’autentico germe dell’altro.
Ho detto ‘germe’, non bozzetto, perché il nostro quadro un bozzetto non è. Esso è il vero e proprio embrione, l’origine prima e ideale dell’altro quadro. La somiglianza fra la prima e la seconda Pastura non si limita a una generica affinità di soggetto. C’è piuttosto un chiaro nesso poetico fra le due opere, non del tutto facile sulle prime da cogliere. È una singolare dinamica interna del piccolo quadro che si esplicita quasi come una dilatazione di esso nell’opera maggiore. Il paesaggio e l’andamento degli animali della piccola Pastura sono utilizzati dal Sernesi con poche varianti per dipingere solamente il primo quarto a sinistra del grande quadro. Solo la fanciullina ne è esclusa, con la sua pertica più lunga di lei; la piccola Annunziata che è come proiettata verso il centro del grande quadro, anzi per l’esattezza – perché qui sia decisamente messa da parte la casualità di questa scelta – nella sezione aurea del riquadro dell’opera costituito da due quarti centrali del dipinto che, uniti in unico specchio vengono a formare con i due quarti laterali come il panello centrale di un trittico. E tutto il grande quadro non è, compositivamente parlando, che una patetica dilatazione del piccolo quadro realizzata per richiami suggestivi proiettati a loro luogo nei punti nevralgici del dipinto.
Tutto questo converge a confermarci nell’idea dell’indubitabile autografia sernesiana della grande Pastura e dell’azzardo veramente arrischiato in cui si è avventurato così alla leggera Giampaolo Daddi. Ho qui sotto i miei occhi per scrivere queste righe la monografia del Sernesi di Giuseppe Intersimone aperta per riscontri fra la tavola XL riproducente a colori la grande Pastura in montagna, qui detta Alti pascoli, e la tavola XLI che offre ugualmente a colori la versione di minor formato (che fra le due è veramente la più viva) dei Bovi neri al carro. Ed è sul serio una cosa poco credibile che il Daddi, di certo trovatosi al pari di me chissà quante volte davanti alle due immagini poste in modo così invitante proprio una al di sotto dell’altra, possa aver trascurato, come in realtà ha trascurato di osservare un elemento che non gli avrebbe mai consentito di attribuire ad altri che non al Sernesi la grande Pastura; e cioè l’uguale, identica fattura di uno dei due buoi attaccati al carro – quello di sinistra – rispetto a un altro bove che si vede libero nella grande Pastura. Mi riferisco al terzo animale in avanti fra quelli che precedono la Nunziatina in prossimità di uno dei due faggi, quello di sinistra, con quel chiarore triangolare dello scoscio, e con quel triangolo che non saprei dire altro che unico della testa, carpita non senza geniale prevaricazione dal vero per rendere in questo modo viva sul serio la testa dell’animale. Sono, questi, autentici caratteri morelliani di inequivocabile certezza che ci dànno ogni sicurezza sulla positiva identità della mano.
Queste riflessioni consentono di rendersi conto di come, per il Daddi, l’attribuzione al Borrani della grande Pastura dipenda non tanto da una accurata disamina dei modi esecutivi del nostro pittore, ma Raffaello Sernesi sì da una idea generica di essere quel tipo di quadro poco consueto per il suo soggetto nell’opera di Sernesi (che a San Marcello, fatta eccezione delle due Pasture, la piccola e la grande, dipinse solo puri paesaggi), e ad essa poco conforme.
Ma questa patente analogia fra la grande Pastura e la Raccolta del grano di Borrani si spiega e ha un suo chiarimento con l’aspirazione profonda del Sernesi di emulare in questo caso il suo amico e maestro, il Borrani, da lui ammiratissimo seppure di una ammirazione molto singolare combinata insieme di difficoltà e imbarazzo.
Di casa Cini, nel suo grande quadro, il Borrani aveva rappresentato tre membri adulti, due uomini e una donna, raffigurati nella loro operosità quotidiana con quella semplicità insieme e cordialità affettuosa che caratterizzò costantemente in questo genere di dipinto il fare del Borrani, dal 26 Aprile 1859 a Firenze alle Cucitrici di camicie rosse. Un coinvolgimento fatto di attenzione a un impegno gentile e umanamente necessario che unisce pateticamente l’autore del quadro e i raffigurati. È un tratto cordiale cui sul piano della vita anche il Sernesi partecipa ma che viene a turbare in qualche modo il suo equilibrio interiore e la sua distaccata considerazione del sentimento. Avere posto l’occhio su una bambina cui è imposto dalla forza delle cose un lavoro del tutto superiore alle piccole risorse di lei, consente all’artista un distacco, un genere di lucidità che il Borrani non giunge a possedere e lo porta a una visione della realtà che può parere in qualche modo a petto a quella del Borrani fredda e disincantata; e ognuno avverte che non lo è perché semplicemente rispettosa di valori più alti. In altre parole, volgendo la sua attenzione a una bambina alle prese con la vita, il Sernesi riesce a trovare quel niente di disincanto che ebbe ad affrancarlo da quel fare affettuoso e da quella cordialità costituente per lui la logica vincolante del sentimento e il principale impedimento ad essere fino in fondo se stesso.
Per questa via il Sernesi giunge a dire una sua parola personale che mentre si caratterizza di deferenza e di ammirazione sincera per il lavoro di un amico che gli è in qualche modo maestro, pure riesce così schiettamente sua propria da distinguersi spiritualmente e in qualche modo a contrapporsi genialmente a quella di lui in due opere squisite, altamente significanti e pur diversissime fra loro: l’una, la piccola Pastura un delicato e commosso rapimento del cuore in un momento magico e irripetibile dell’esistenza; l’altra una visione sintetica ricca di molteplici motivi – vita, natura, elevazione spirituale, meditazione, sogno – condotti a perfetta unità formale e allo stile più rigoroso attraverso il potere miracolosamente uniformante della strut- tura spaziale e soprattutto della luce e della into- nazione luminosa.
Una duplice capacità astrattiva che sebbene fondata eminentemente sul senso giunge nondimeno a scoprire il tratto riflessivo e specificatamente intellettuale della personalità del nostro artista. Una qualità, questa, che fu fra i pittori macchiaioli tanto esclusivamente del Sernesi da costituire un tratto distintivo di lui, e inequivocabile.
Se dopo questo excursus, si considerino ora, per mantenere sott’occhio le proporzioni complessive del nostro ‘cantiere’ dopo le già elencate ope- re del Borrani anche quelle del Sernesi, dovremo tenere presenti in primo luogo i cinque pezzi che potremo chiamare dei Bovi neri […] avendo cura di aggiungere subito la quasi certamente coeva piccola Pastura […] che nata, noi crediamo più o meno nei giorni di questo gruppo pure si distingue nettamente da esso, come abbiamo visto, per la sua ispirazione, dando l’avvio a tutta la produzione successiva del Sernesi. Questa aggiunta ci porta a sei pezzi che diventano otto con le due opere maggiori a conclusione dell’attività di Sernesi al Pian dei Termini cioè l’Alba e la Pastura in montagna (per quello che quest’ultimo dipinto abbia avuto nel corso di quell’anno 1861 a vantare di positiva- mente operato: ché il quadro come noi sappiamo dal Signorini fu portato a compimento più tardi e presentato al pubblico solo nel 1865). A questi otto pezzi ne restano da aggiungere altri otto di piccolo formato.
Tre […]; altri tre […] con la veduta del Libro Aperto e due infine […]: due piccole vedute in lontano che pure affini a quelle […], scoprono nondimeno, per la diversità delle lontananze una sensibilità alquanto diversa, per raffinatezza lenticolare. Si tratta complessivamente di ben sedici opere che aggiunte alla grande Mietitura del grano di Borrani e ai suoi cinque quadri minori portano a ventuno – secondo almeno il nostro conteggio – i quadri dipinti dai due amici al Pian dei Termini.
Tutto questo detto con molta approssimazione e corposamente parlando, onde familiarizzare per così dire con la materia di cui abbiamo preso a discorrere. Perché noi, a parte i quattro disegni del Borrani cui abbiamo or ora fatto cenno, datati al 7, al 10, al 22 e al 27 giugno; quattro disegni che mostrano del resto i nostri amici o in viaggio o non giunti comunque a destinazione, anzi solo aggirantisi in prossimità della mèta – a Macereti – il giorno 27; noi, dicevo, non possediamo elemento alcuno di natura oggettiva che ci consenta di scrivere una vera pagina di cronaca storica o quanto meno di far ordine in mezzo alla non piccola quantità di opere di Sernesi riferibili con qualche sicurezza a San Marcello. Possiamo solo dire che un presso a poco nella seconda settimana di luglio ebbe luogo con certezza la mietitura del grano cioè lo spettacolo che il Borrani si era riproposto, probabilmente su due piedi, di rappresentare. Egli ebbe dunque un gran da fare in quel giro di tempo a partire dalla prima settimana del mese onde predisporre il necessario per dipingere il quadro che si era risolto a realizzare e per mettersi all’opera, poi per porre debitamente in atto quanto propostosi.
Si ha un bel dire che il quadro fu dipinto in studio e per molto tempo l’ho creduto anch’io. Sicuramente in studio esso fu portato a termine ed ebbe l’ultima mano. Ma a ben riflettere l’avvio del lavoro non è pensabile se non direttamente sul posto. Dopo tutto le dimensioni del dipinto sono dimensioni da cavalletto; e non si può considerare un puro caso la circostanza che – se questa del realizzare l’opera da cima a fondo in atelier era la strada prescelta – nessun studio per la nostra Raccolta del grano sia giunta fino a noi. Anche il Daddi che dà per scontata l’esecuzione del quadro in studio è costretto a congetturare l’esistenza di un’altra opera d’insieme andata poi perduta nel tempo. No, noi siamo convinti che, nel suo entusiasmo – un entusiasmo che si rivela dalla natura stessa dell’opera – il Borrani abbia deciso di cominciare a dipingere il suo quadro non mediante altri quadri ma direttamente in loco, sulla sua brava tela di un metro e venti di base.
Quanto al Sernesi si intuiscono chiaramente due momenti nella sua attività a Pian dei Termini: uno assai breve nel quale egli è occupato più da vicino dall’impresa dell’amico; l’altro più lungo e più intimamente raccolto ove Raffaello, preso dai suoi pensieri più personali e dalle sue fantasie malinconicamente riflessive porta avanti operosamente il grosso del suo lavoro. Nel primo momento egli opera nella zona sud-orientale della piana. I bovi compivano, lavorando, un tragitto regolare dal centro del campo sotto il Terminaccia ai granai che si trovavano a mezzogiorno verso la fattoria. I due animali facevano una sosta, sovente prolungata per le occorrenze del lavoro, a mezza strada, proprio di contro le alture che dal piano coprono la vista di Gavinana. Ora, qui per l’appunto, contro questi monti, il Sernesi ritrasse i due superbi bovini quasi desideroso di cooperare col Borrani (che li dipingeva mentre ricevevano il carico), e di eternare a suo modo quel momento memorabile. Tutto questo fino a quando, assai presto, la Nunziatina non sopravvenne a richiamarlo delicatamente ai suoi sogni.
Se fino a questo momento solo la zona sud-orientale del podere era stata da lui praticata da ora in poi, come visto fu quella nord-occidentale a divenire il centro di ogni sua attenzione. Ciò si può pensare essere avvenuto avvicinandosi ormai più o meno la metà del luglio. Io credo che presso a poco da questo momento Raffaello si sia dedicato a dipingere l’Alba, un’opera della quale, per sua na- tura sembra potersi pensare di esser di quelle che ti colgono di sorpresa al momento del loro primo imporsi e ti incantano; e dalle quali è disagevolissimo staccarsi una volta cominciato il lavoro. Questo fu dunque secondo noi l’impegno principale del Sernesi nella seconda metà del mese:un lavoro che si può ben pensare essenzialmente compiuto in una quindicina di giorni, anche se ancor bisognevole di precisioni e perfezionamenti che poterono aver luogo in studio col ritorno cioè del pittore a Firenze. Non è facile, purtroppo, da una semplice fotografia – ché nulla di più possediamo, come detto per far dei riscontri – capacitarsi di quello che al quadro pittoricamente parlando capitò. Qualche passo in avanti si potrà fare se, come auspicabile ci verrà concesso ancora una volta dopo tanti anni vedere finalmente di nuovo, dell’Alba, la tela originale.
Quanto poi al pendant di quest’ultimo quadro, cioè la Pastura in montagna un quadro che noi sappiamo con certezza dal Signorini dipinto solo più tardi, par ragionevole domandarsi: la tela di questo dipinto rimase bianca per allora o non fu forse come pare non impossibile avviata anch’essa in
qualche parte? Una risposta sicura a questa domanda, in difetto di dati oggettivi, non è sicuramente possibile. Pure la trasposizione cui noi abbiamo accennato della piccola prima Pastura a formare l’estremità sinistra della tela maggiore, invoglia indubbiamente a credere che una tale operazione possa essere stata compiuta in questo momento o quanto meno avviata.
Ma forse c’è un’altra strada che ci aiuta se non a venire a capo del problema a contemplarlo util- mente da un altro angolo visuale. È cosa infatti davvero singolare che il nostro quadro ricordato dal Signorini con parole inequivocabili e con certezza esposto solo nel 1865 alla Promotrice dedicata al Centenario di Dante, ha continuato ad essere universalmente datato fino al giorno d’oggi 1861. Scrive il Signorini, parlando del soggiorno di Borrani e Sernesi a San Marcello: ‘Più tardi da certi studi fatti a San Marcello rappresentò una Pastura in montagna che riuscì di una calma sorprendente e d’una intonazione luminosissima’. Pure, nonostante la chiarezza evidente di queste parole che fra l’altro richiamano in maniera davvero patente il dipinto al quale si riferiscono, tutti gli autori dalla Franchi (1902) al Callari (1909); dall’Ojetti e dal Somaré (entrambi 1928) alla Wittgens (1932); dal Pischel (1945) alla Cazullo (1947); dal De Logu (1955) al Giardelli (1958); al Borgiotti (1964); allo Spalletti (1985) alla Broude (1987); alla Bietoletti (2001) alla Dini (2002); giù giù ai repertori come il Benedite-Fogolari o il Galletti-Camesasca, il Bolaffi, l’Allemandi; tutti insomma, dicevo, datano il nostro quadro 1861.
E noi stessi – dobbiamo ammetterlo – noi stessi che siamo perfettamente coscienti delle parole del Signorini, che anzi, proprio sulla base di quelle, siamo giunti a riconoscere un secondo viaggio compiuto dal Sernesi a San Marcello al momento di licenziare il suo quadro nel 1865 […]; ebbene noi stessi non ce la siamo sentita di spostare ad altro luogo che questo un quadro che sta perfettamente qui e non altrove. I quadri dipinti dal Sernesi a San Marcello nel 1865 non si accompagnano punto al nostro che invece vive di una sua propria vita qui, giustappunto, e solo qui.
Senza far torto all’estetica che rigorosamente impone la coincidenza perfetta dell’intuire e dell’operare artistici, e non accetta che una poesia, un dipinto o altra produzione d’arte possa essere ‘pensata’ a prescindere dalla forma tangibile che l’artista di volta in volta gli dona; è pur ammissibile, come cosa che storicamente si dà, una atmosfera o un ‘clima’ che a un certo momento si produca e si imponga per ragioni artistiche, psicologiche, sentimentali, morali, intellettuali, e che altri giunga a idealizzare nel ricordo come un qualcosa di stante e di non soggetto a cambiamento, a questa astrazione rispettosamente attenendosi, come a un qualsiasi altro suo oggetto di rappresentazione, quasi volesse proporre il suo fare come un omaggio a quella determinata atmosfera, a quel ‘clima’.
Ora di un vero e proprio ‘clima’ è lecito parlare nel nostro caso. Un clima che nel ’61 si impone giustamente ai nostri amici e al quale con la sua Pastura in montagna il Sernesi mostrò di sapersi mantenere fedele fino all’ultimo negli anni fra il ’61 e il ’65, nonostante il tempo passasse e anche ad onta delle cose nuove e diverse che frattanto gli sbocciavano fra le mani.
Sernesi fu artista dai tempi di maturazione lentissimi; come quello che non si sapeva stacca- re da un’idea convincente che gli fosse germinata in seno. E a parte le sue movenze estremamente caute da noi osservate nel suo periodo giovanile e accademico nei confronti per esempio del Ciseri, ci è ben noto, fra l’altro in materia di quadri di dimensione e del periodo ormai maturo un ulteriore dipinto che avviato addirittura nel ’59, fu da lui concluso solo nel ’64, ed è la Vigilanza […] un’opera sulla quale avremo motivo di tornare a parlare nel capitolo a questo successivo. Un problema che tuttavia Raffaello risolse non già nello spirito e nel clima della sua prima invenzione, come era avvenuto nel caso della Pastura in montagna, ma sì, tutto al contrario (purché la continuità della prima idea si mantenesse) sul fuoco del più recente suo fare, quello che, come vedremo, lo condurrà ai suoi primi capolavori di Castiglioncello.
Ma per tornare a noi e venire ai tempi e ai motivi della lavorazione della Pastura in montagna dopo il ritorno a Firenze del nostro Sernesi da San Marcello, non è facile, atteso il silenzio totale delle fonti e forse non è neanche lecito ipotizzare qualcosa. Ma, in difetto delle fonti, per rendersi miglior conto di come in realtà dovettero andare le cose, viene a soccorrerci la conoscenza dei fatti. Sì, è vero, è abbastanza logico che a un quadro capace di rivelarsi dopo quattro anni di aspettati- va dell’importanza del nostro il Sernesi abbia seriamente pensato di attendere subito dopo il suo ritorno in patria (che fu nell’agosto del 1861); ed un indizio di questa probabile sua immediata applicazione lo si ha da una curiosa circostanza e cioè che nell’anno successivo, il ’62, la piccola Pastura cioè il quadretto della Nunziatina fu dopo essere stato presentato a Milano nel ’61, esposto di nuovo alla Promotrice di Firenze ma non con il suo titolo originario, la Pastura, bensì, come ciò avvenisse per attrazione, col titolo che sarà poi quello del quadro maggiore cioè la Pastura in montagna. Ma, se questo è vero, bisogna pur riconoscere che quel 1862 fu per il Sernesi pittore un anno per davvero micidiale e poi funesto in ragione del sempre più serio aggravarsi della malattia del padre di lui, Pietro e infine della sua morte seguita nel maggio che impose a Raffaello drastiche misure di rinunzia alla propria vocazione di pittore a tutto vantaggio del suo mestiere di incisore medaglista onde potere fronteggiare le impellenti necessità di famiglia. Non si conoscono opere di Sernesi riferibili con certezza al 1862 e nemmeno a tutto il ’63. È questo il periodo di vera e propria rinunzia alla pittura di cui ci parla il Signorini; e quando finalmente nel corso del ’64, essendo il nostro riuscito a trovare un modus vivendi fra il suo mestiere di incisore e la sua passione, si applica di nuovo alla pittura, egli è così invaso dal clima di animazione che gli si crea tutt’intorno per effetto della ripresa che l’ordine delle cose ormai gli consente a soddisfacimento della sua autentica vocazione, quella della pittura, da non potersi nemmeno concepire il ritorno col pensiero a un’opera che, non di certo dimenticata, pure imponeva per sua stessa natura un atteggia- mento distaccato, consapevole e riflessivo.
C’era, a quell’ora, nel nostro Raffaello, unito alla gioia della scoperta dei motivi plastici e luminosi capaci di condurlo all’animato insieme di opere che vivono intorno alla superba Marina di Castiglioncello, l’impeto di un riscatto morale, di quasi una rivincita, nei confronti di quei suoi contemporanei di studio che, come sappiamo dal Signorini, altro non avevano visto nel temporaneo distacco dalla pittura che un’impotenza a esercitare l’arte sua: un’arte – scrive l’amico – che egli aveva ‘brillantemente studiata’ e che ora dava patentemente i suoi frutti: per l’appunto quelle opere nuove nelle quali – sentenzia il Signorini – ‘egli mostrò chiaramente agli artisti la portata grande del suo ingegno’.
Assai poco, tutto questo fervore si confaceva a quell’atteggiamento distaccato, consapevole e riflessivo cui or ora accennavamo. Un atteggiamento che invece si produsse del tutto naturalmente l’an- no successivo, il 1865, allorché, riposando alquanto quel fuoco, viene ancora una volta a prodursi nell’arte di Sernesi, un’alternanza di ispirazione quell’alternanza già da noi studiata di ‘patetismo e ironia’ che gli concede ora l’esito in assoluto più alto che noi si conosca in questo filo di ispirazione, cioè le due splendide versioni di Grano maturo […]. Solo in questo clima del tutto al riparo dalla passione poteva ora finalmente aver luogo la nitida, poeticissima vena del tutto distaccata e astraente del nostro capolavoro: la Pastura in montagna.
Insomma, riepilogando in breve la assai complessa storia del nostro quadro, si può tranquilla- mente asserire che esso fu concepito e cominciò a prendere forma a un tempo stesso con la piccola Pastura, cioè il quadro della Nunziatina e con l’Alba; che Raffaello cominciò a dipingere la grande Pastura molto probabilmente negli ultimi giorni della sua permanenza a Pian dei Termini e che nel corso del ’61 dopo il ritorno di lui a Firenze, il quadro non mancò di esercitare ancora, del continuo, la sua attrazione sul nostro, dall’autunno di quest’anno fino al maggio del ’62 quando Pietro Sernesi venne a mancare. Salvo che, nell’imbrogliatissima situazione e psicologica ed economica nella quale il nostro si venne a trovare, un tal genere di attrazione, ebbe il carattere dopo la parentesi esaltante di libertà creativa cui quelle settimane in montagna avevano dato luogo, soltanto di un riflesso assai spento di quello che era stato.
Fu un errore evidente, da parte nostra, quello di credere che nel ’62, la Pastura in montagna potesse essere già stata esposta. È quanto in un raptus ci avvenne di scrivere nel 1975-76, in occasione della mostra di Monaco e del Forte del Belvedere a Firenze. Ma troppi elementi ci mancavano a quel momento per avvederci dell’azzardo, e per renderci conto dell’improbabilità di una datazione che nel corso del tempo finì per mostrare, per molte incongruenze, la sua fragilità. No, solamente nel ’65, il quadro, difficile dire da qual momento fin qui abbandonato, ma – noi crediamo – per l’appunto da quel ’62 fu ripreso da Raffaello e finalmente finito, proponendosi ormai all’artista le condizioni più favorevoli alla sua esecuzione, cioè quella poeticissima vena astraente e spiritualizzante di cui dicevamo.
Tre elementi di fondo guidarono il Sernesi nella esecuzione relativamente rapida del dipinto: primo l’esigenza in lui del tutto naturale di dar infine compimento a un lavoro che, nato in un momento particolarmente felice della sua propria formazione continuava a vivere nel suo cuore come un sogno che esigeva istantemente di essere realizzato; secondo: il compiacimento dell’avvertire giunto finalmente il momento, dopo tanti impedimenti e incertezze, di porre in atto un disegno tanto a lungo vagheggiato e dar concretezza, come sùbito in effetti fu, al progetto di un ritorno sui luoghi che avevano veduto nascere quell’esordio tanto suggestivo e attraente; terzo: il desiderio intenso di un ragguaglio sensibile con Odoardo Borrani. Quel Borrani che il Sernesi ammirava e amava e desiderava emulare, purgato nondimeno a suo sentimento da qualsiasi richiamo illustrativo e patetico e rinvigorito semmai – per usare le parole del Cecchi – da quel ‘robusto sapore intellettuale così affine a quello della antica pittura toscana in sembiante ligia al vero e potentemente astrattiva: un senso d’ordine, di dominio, di austerità’.
Questa l’autentica impressione che suscita la Pastura in montagna, tale e quale si presenta semplicemente all’occhio, attraverso misure che sanno veramente d’antico. Il quadro è diviso in quattro parti uguali, ma le due parti centrali, formando un solo riquadro, danno luogo come accennato a un vero e proprio trittico e vita a un giuoco di tre e di quattro, reiterantesi per misteriosa simmetria in più luoghi dell’opera (la pastorella e i due faggi, la pastorella e le due mucche che le son più vicine; le quattro mucche in primo piano nella parte sinistra del dipinto, a petto alle tre più lontane che vengono loro incontro; i tre cespugli nella estrema destra del quadro distanziati appena da un quarto, etc.). Essa stessa, la bambina pastora occupa la sezione aurea della parte centrale del trittico. Ma tutto questo non ha niente, assolutamente niente di voluto, di ricercato, anzi esce con una innocenza commovente dalla pura necessità del dire e del raccontare. Il moto visivo si espande perfettamente armonico e delicato in senso inverso al moto rea- le degli animali, avviato – senza che alcuno se ne avveda – dalle due mucche all’estrema sinistra che rese minuscole dalla distanza si avviano spiccando per contrasto sul cielo, verso tutti gli altri animali, che avanzano lentamente brucando e andando loro piano piano incontro, a occupare l’intera parte sinistra della composizione come sostenuta a distanza dalla presenza della pastorella e dall’ultima delle mucche che, qualche metro più addietro, si affaccia tranquilla dal quarto e ultimo riquadro a chiudere la scena. Il moto degli animali è magistralmente scandito da spazi via via decrescenti numerosamente come in una composizione poetica, che offrono il senso corposo di quell’andare suggestivamente misto di ordinario e di solenne. Questo insieme di notazioni che viene per così dire a geometrizzare corposamente il racconto sa come magicamente conferire alle immagini una tenuità e una leggerezza senza pari rendendo come incorporeo ogni oggetto. E sono questi i caratteri capaci di conferire alla tela quella che il Signorini definisce ‘la calma sorprendente’ del dipinto. Ma nulla, veramente nulla quanto ‘l’intonazione luminosissima’ di quest’opera – che è l’altro requisito del quadro che il Signorini indovina –, serve, con la sua astratta impalpabilità, col giuoco delle sue inflessioni limpide e variate, a dare al nostro dipinto il suo autentico significato che è il riconducimento dei moti del cuore alla superiore impassibilità della forma.
Il difficile problema di un quadro portato a termine a distanza di quattro anni dalla sua primitiva e originaria impostazione ci ha distolto, finora, per gran tratto, dall’attenzione nei confronti di qualche altro dipinto che invece sicuramente eseguito nel corso del ’61 non sempre è del tutto agevole situa- re nel contesto che in realtà lo comprende. Non è difficile avvedersi che un quadro come Altipiano al mattino […] già appartenuto al Fattori è da immaginarsi eseguito mentre il Sernesi attendeva alla esecuzione dell’Alba; tanto non solo l’andamento inventivo e poetico di queste montagne richiama quel quadro, ma le cime raffigurate sono riferibili con certezza alla Val di Lima, ancorché riguardata da un diverso angolo visuale. Una considerazione, questa, che pari pari può ripetersi per altri due quadri: un limpido e fermissimo piccolo dipinto di proprietà Pinottini raffigurante delle Montagne […]; e un’operetta da tutti finora assegnata a Cristiano Banti, come da lui proveniente, ma che a nostro giudizio è da assegnare senza alcun dubbio al Sernesi, cioè Colline toscane […]. Meno facile da situare sono tre piccoli dipinti che uniti fra loro dal- la veduta del Libro Aperto, potrebbero essere messi in relazione con una delle pagine del taccuino di Borrani qui da noi pubblicate: quella contrassegna- ta dalla scritta: ‘Libro Aperto. Veduta da Macereti, presso San Marcello’[…]. Il Sernesi potrebbe avere anch’egli, da Macereti o da qualche luogo prossimo a questa località, ripreso il Libro Aperto – ciò che non è contraddetto dalla prospettiva delle tre opere –; nel qual caso avremmo anche una data di riferimento, il 27 di giugno, la data cioè del primo giungere dei due amici nella zona dove essi si fermarono poi per un mese, cioè il vasto podere di Pian dei Termini dove essi operarono quello che fin qui abbiamo tentato di raccontare.
Sarebbe dunque, questa, una vera e propria premessa del precedente racconto che si prolunga poi nei due ultimi quadretti da noi qui presentati, le due vedute in lontano che stanno abbastanza a sé, come visto […] in una delle quali è ancora una volta chiaramente visibile il Libro Aperto.”
di Tiziano Panconi